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21 Giugno 2021

Intervista a Emanuela Canali, responsabile diritti esteri Mondadori Libri

Autore:
Paolo Grossi

Dopo oltre un anno di pandemia e di appuntamenti fieristici internazionali solo digitali, come va il libro italiano all’estero?

Nonostante lo shock iniziale, che ha gelato tutto il mondo, non solo quello dell’editoria, nulla si è fermato nel mondo dei libri; i dati sono sorprendenti e lo dicono con chiarezza: dopo un primo periodo di smarrimento con conseguente pausa forzata, il settore ha reagito con prontezza. E anzi questa pausa forzata al mondo dei libri ha fatto bene: quasi ovunque si è riscoperto il piacere della lettura e questo ha spronato gli editori a non fermarsi, ma a concentrarsi di più e meglio sul proprio lavoro. Se anche ci sono stati tagli, spostamenti e riassetti dei propri programmi editoriali, l’interesse generale per un buon libro non è mai venuto meno. Questo vale anche per i titoli italiani all’estero; chi si aspettava che gli editori esteri avrebbero sospeso l’acquisizione di nuovi autori del nostro Paese, si è dovuto ricredere. Così non è stato, anche se è vero che si è registrata una maggiore oculatezza nelle scelte editoriali, evidenziando una preferenza per autori classici che possano garantire una durata nel tempo. E, almeno nella mia esperienza personale si sono verificati anche fenomeni molto interessanti.

 

Che cosa cercano gli editori stranieri quando guardano all’Italia? Sono emerse nuove tendenze in quest’ultimo periodo?

Per anni dall’Italia si sono cercati romanzi o saggi sulla mafia – nelle sue varie declinazioni: mafia, camorra, ’ndrangheta, comunque criminalità organizzata – oppure romanzi che corrispondessero a quell’Italia da cartolina legata allo stereotipo «spaghetti amore mandolino» oppure al neorealismo alla «sciuscià». Dunque preferibilmente Sud, povertà, infanzia durissima, paesaggi quasi primitivi, una dimensione «esotica». Il successo di Gomorra o del Commissario Montalbano (per citare i due esempi di maggior successo) vanno in questa direzione, senza nulla togliere al talento straordinario di due scrittori come Roberto Saviano e Andrea Camilleri, che hanno fatto scuola e tendenza e hanno creato un’impressionante serie di epigoni.

Non rientra in questi filoni uno scrittore giovanissimo come Paolo Giordano, che con un primo acerbo romanzo ha saputo farsi largo nel mondo non raccontando un’Italia rassicurante per i lettori stranieri, ma una storia di solitudine e disagio giovanile, ben esemplificata nell’osservazione stupefatta di un giovane scrittore anericano, Stefan Merrill Block che ha scritto: «What a shock to open a novel written by a young physicist in Italy and find myself in every page! No wonder Giordano’s readers can be counted in the millions; this astute, aching contemplation of solitude has a power to make us all feel a little less alone». Questo è stato un momento di gloria per l’Italia che ha provocato una nuova moda e scatenato una vera caccia alle voci nuove «à la Giordano». Sono seguite altre mode, altre tendenze (il giallo italiano, il romanzo legato alla montagna mi sembrano le più degne di note), e poi è arrivata Elena Ferrante. E si è scatenato il finimondo.

Era abbastanza prevedibile che un romanzo ambientato a Napoli avrebbe risvegliato un forte interesse, ma non tutti inizialmente erano disposti a scommettere sulla storia di un’amicizia femminile. E invece tutti i quattro romanzi si sono piano piano trasformati in bestseller da centinaia di migliaia di copie e – incredibile dictu! – sono riusciti a scalare le classifiche di vendita di tutti i Paesi del mondo. Questa è stata la grande, vera novità introdotta dalla Ferrante: per la prima volta a dominare le classifiche internazionali era un’autrice italiana per di più sconosciuta, pochissimo incline a concedersi nelle interviste e totalmente restia a promuoversi non solo all’estero, ma addirittura entro i propri confini.

Era ovvio che la prima conseguenza di questa «deflagrazione» fosse quella di risvegliare un fortissimo interesse per le scrittrici femminili, e questa a mio parere è la maggiore tendenza emersa negli ultimi tempi insieme a quella a cui ho accennato prima, e cioè la ricerca di una scrittore/scrittrice che possa continuare a parlare nel tempo, «che non finisca mai di dire quel che ha da dire», per citare Calvino. Personalmente, l’ho sperimentato con Alba de Céspedes, grandissima scrittrice troppo a lunga dimenticata anche in Italia, che con la Ferrante condivide quello sguardo implacabile sul «sordido destino» delle donne. Peraltro, è la stessa Ferrante a citare nel suo quaderno di lavoro Frantumaglia il capolavoro della de Céspedes – Dalla parte di lei – come uno dei suoi «libri di incoraggiamento», e lo ha lodato come un «testo che mi appare tutto di grande intelligenza letteraria… nelle prime centocinquanta pagine, c’è il racconto di un rapporto madre-figlia, e più in generale un catalogo dei rapporti umani tra donne, che è memorabile».

Da anni non ricevevo manifestazioni di così diffuso interesse da parte dei maggiori editori del mondo per un’autrice italiana; da anni non facevo aste così agguerrite che si sono concluse a favore di alcuni tra i più bei nomi del panorama internazionale, tra i quali Gallimard, Suhrkamp/Insel, Seix Barral, persino i cinesi di Shanghai 99. Tutti intendono promuoverla e rilanciarla in grande stile nell’ottica auspicabile di ricreare quella «Ferrante’s fever» di cui tanto si è parlato, al punto che gli editori di lingua inglese (Pushkin Press in UK e Astra House in US) stanno cercando di accaparrarsi Anne Goldstein (la traduttrice della Ferrante). Io sono pronta a scommetterci, perché unanime è stato lo stupore e la meraviglia degli editori stranieri nello scoprire (o riscoprire, perché non dimentichiamo che la de Céspedes è stata una delle scrittrici italiane più tradotte negli anni Cinquanta) una voce «di un’incredibile modernità in grado di esplorare in profondità e senza tabù il femminile».

Due appuntamenti internazionali di rilievo aspettano l’Italia quale ospite d’onore nei prossimi anni: Parigi 2022 e Francoforte 2024. Quale importanza attribuisce a questi due eventi fieristici e quali risultati si aspetta? Che cosa è necessario fare, a livello di istituzioni pubbliche, per arrivare preparati?

Questi appuntamenti fieristici sono importanti perché convogliano l’attenzione del mondo sull’Italia e sulla sua produzione, attivando – come è successo in passato – una straordinaria corrente di interesse. Non dobbiamo mai scordare che l’italiano purtroppo è una lingua parlata da una minoranza nel mondo e tutto quello che si può fare per promuovere la sua diffusione è sommamente  benvenuto. Intanto, mi sembra buona cosa che il sito newitalianbooks abbia colmato un vuoto che da tempo richiedeva di essere colmato, allineandosi con i Paesi europei, che disponevano di uno strumento analogo da anni. Trovo anche molto apprezzabile che, per affrontare le due prossime prove fieristiche, questo sito si stia attrezzando con l’edizione in francese e quella in tedesco, chiari segnali di una maggior attenzione verso questo settore. Per fortuna, siamo lontani dai tempi del famoso articolo di Fruttero & Lucentini uscito su La Stampa (che purtroppo non riesco più a ritrovare) sulla bizzarria con cui le istituzioni seguivano gli autori italiani all’estero. L’interesse ora mi pare che ci sia, e che sia concreto. Quello che ora si chiede alle istituzioni è un impegno congiunto e compatto da parte di tutti (ministero degli Affari Esteri, ministero della Cultura, Aie) con il fine di fare sistema. Solo così si potrà riuscire a far conoscere meglio quello che sta succedendo in Italia. E ben vengano l’organizzazione di presentazioni di autori, gli incontri tra editori per favorire gli scambi, le panoramiche sull’editoria italiana magari con presentazioni per aree tematiche (fiction, non fiction, children, arte/cataloghi) della nostra produzione; ma tutto questo è secondario allo strumento principe e indispensabile per avvicinarci agli altri Paesi, e cioè la sovvenzione alla traduzione. Mi faccio, a tal proposito, portavoce delle richieste di tanti miei colleghi stranieri, che auspicano maggiori fondi in questo senso, con maggior garanzia di raggiungimento e semplificazione delle procedure, e più sessioni per la presentazione delle domande (mi dicono che il Letterenfonds olandese disponga di sette sessioni all’anno; non si chiede tanto ma anche solo un paio potrebbe essere di grande aiuto).

Tutti ci auguriamo di tornare presto alle Fiere «in presenza» ma intanto abbiamo visto come il BIEF (Bureau International de l’Édition Française) ha saputo organizzare una poderosa piattaforma che ha lanciato nel mondo la «French Week», una manifestazione online di due settimane che ha convogliato 570 editori da 53 Paesi con 93 case editrici francesi. I paragoni sono spesso inappropriati – e non me ne si voglia: ma perché non approfittare della maggiore esperienza dei cugini francesi (si sa, abilissimi nel promuovere i loro prodotti, di qualunque natura essi siano) e utilizzarla da apripista?

 

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