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8 Febbraio 2023

Intervista a Raffaella Scardi, traduttrice dall’ebraico

Autore:
Maria Sica, direttrice degli Istituti Italiani di Cultura di Tel Aviv e di Haifa

La traduzione di libri di autori israeliani in Italia è in crescita da diversi anni: ce ne parla da Haifa  Raffaella Scardi, traduttrice dall’ebreo e consulente editoriale.

Il traduttore è colui che deve ricucire, in un certo senso, lo strappo post-Babele, colui che cerca di riconnettere ciò che è stato frantumato dal crollo della Torre. Un lavoro silenzioso e certosino da cui scaturisce immancabilmente il tema della “solitudine del traduttore” e anche quello dell’”invisibilita’ del traduttore”. Sono solo luoghi comuni? Che cosa pensa su questi temi?

Tradurre letteratura contemporanea richiede senz’altro concentrazione e silenzio, è una professione realmente solitaria. Io ritengo però che una buona traduzione preveda anche una costante relazione con l’altro: relazione tra le culture che traduciamo, e che dobbiamo conoscere vivendo nei due mondi; relazione con chi ha scritto il testo nella lingua originale, con cui è utilissimo confrontarsi se appena è possibile; relazione con colleghi, traduttrici e traduttori della lingua di arrivo e della lingua di partenza, con cui consultarsi e riflettere, con cui discutere e studiare, con cui partecipare a seminari e laboratori. Esistono anche residenze per traduttori, luoghi dove si lavora in tranquillità ma in costante contatto con compagni di interessi e professione. Di tutto questo la traduzione si nutre per diventare ricca, precisa, viva. Per quanto riguarda l’invisibilità: l’attenzione alla qualità della traduzione, e di conseguenza alle condizioni di lavoro di chi la produce, varia da paese a paese. L’Italia ha una tradizione e una realtà attuale di traduttrici e traduttori di altissimo livello, che non sempre gli editori dimostrano di apprezzare e premiare. In tal senso voglio sperare che la nuova, recente, legge sul Diritto d’Autore, che recepisce la direttiva UE del parlamento europeo e coinvolge direttamente i traduttori editoriali, sarà applicata in modo da tutelarci. Personalmente noto che in Italia negli ultimi anni aumentano le occasioni in cui si parla di traduzione e si coinvolgono gli “autori invisibili”, coloro che hanno faticato lunghe ore sul testo per portarlo da una lingua all’altra. 

 

La poetessa Mariangela Gualtieri dice: “Non ci sono mai abbastanza parole, mai abbastanza parole”. Possono convivere più traduzioni di uno stesso testo? 

Non ho dubbi sul fatto che possano esistere traduzioni diverse di uno stesso testo. Ogni traduttore immette il suo mondo interiore, la sua storia, la sua cultura, in ciascuna traduzione. Altrettanto rilevanti sono le condizioni specifiche in cui ci troviamo a lavorare, e la connessione emotiva a un testo. Due traduzioni non saranno mai uguali. Proprio a causa di questa connessione con la realtà, le traduzioni invecchiano: in Italia si stanno producendo moltissime nuove traduzioni di classici.

 

Com’è organizzato il processo di traduzione di un libro? Quali fasi ci sono e come sono organizzate nel suo modo di lavorare?

Le case editrici si rivolgono a me per leggere libri di cui hanno sentito parlare e dare un’opinione sul loro interesse per il pubblico italiano. Lavoro anche come scout, perciò a volte sono io a proporre titoli che considero interessanti. Dopodiché, quando la casa editrice ha deciso di acquistare il titolo e ha preso accordi con la scrittrice o lo scrittore (tramite il suo agente), si firma il contratto per la traduzione e comincio a lavorare. Leggo sempre prima il romanzo per intero, comincio a tradurre dall’inizio (inizio su cui tornerò molte altre volte) e lentamente entro nella lingua, nella musica, nel mondo del romanzo. Quando arriva il momento della rilettura finale è necessario un periodo di concentrazione completa sul testo, durante il quale mi immergo completamente nel mio romanzo (a quel punto è diventato anche il “mio” romanzo). Cerco sempre di incontrare gli autori che traduco, prima di cominciare la traduzione o durante. Mi tengo poi in contatto durante il lavoro, per risolvere dubbi e incertezze. Una volta terminato, spedisco il romanzo all’editore per la revisione. Il dialogo continua con chi si occupa della revisione e con la redazione. L’ebraico è una lingua poco nota quindi di solito vengo consultata in modo molto puntuale, perché a differenza di quanto accade quando si tratta di lingue veicolari, chi rivede non si può aiutare con l’originale. Seguono (o precedono) consultazioni sul titolo, che spesso viene cambiato per risultare accattivante per il lettore italiano, e sulla copertina.

 

Ha sempre lavorato solo con la lingua ebraica? 

Per le traduzioni editoriali sì. Traduco anche dall’inglese, ma non letteratura: preferisco sfruttare a pieno le mie peculiarità individuali e culturali. 

 

Nello specifico di una realtà come quella di Israele, sono, a suo avviso, pensabili traduttori che rimangono fisicamente e artisticamente lontani dalla cultura del paese della lingua di partenza? Quanto conta il non detto delle due realtà semiotiche in cui si cala una traduzione?

Non credo sia possibile tradurre bene un libro, da qualunque lingua, se non si conosce perfettamente in contesto in cui nasce. Nel caso di Israele, un paese complesso, in fermento, in cambiamento, conoscerne storia, cultura e attualità mi pare più che mai indispensabile. Come traduttrice veicolo il prodotto della millenaria storia ebraica, di cui è pregna ogni singola opera scritta in lingua ebraica, a un pubblico che è cresciuto e ha studiato in condizioni diverse. Non solo devo conoscere bene il contesto da cui parto, ma anche differenze, limiti e difficoltà di quello in cui il romanzo approda.  

 

Sempre su questo tema, si è provato ad argomentare che il traduttore possa essere anche un mediatore culturale o addirittura politico, che deve rendere al lettore l’atmosfera completa della cultura di origine del testo tradotto. È una definizione corretta secondo lei?

Io penso e spero di rappresentare un ponte fra due culture; cerco senz’altro di trasferire al pubblico un mondo intero, senza mai dimenticare che sto traducendo un romanzo, il quale vive della propria musica, universalità, registro.

 

La narrativa israeliana dell’ultimo decennio sembra attraversare un momento di grande fermento. È possibile, secondo lei, evidenziarne una qualità specifica, qualcosa in grado di renderla riconoscibile agli occhi di un lettore europeo? 

C’è nella letteratura israeliana un’intensità, un’urgenza, legate al contesto in cui nasce.

 

Che posto occupa a suo parere la letteratura israeliana in Italia? 

È molto tradotta, molto amata e molto letta. Negli anni Ottanta era noto Yehoshua, dagli anni Novanta l’hanno affiancato Grossman e Oz. Da fine anni Novanta e nel nuovo millennio, è arrivata una nuova generazione di scrittori e scrittrici che ha ampliato stili e tematiche, che ha portato esperienze personali e quindi universali che parlano anche a un pubblico ampio.

 

Lei è la voce italiana di Eshkol Nevo. Come è avvenuto l’incontro con lui? 

Ho conosciuto Nevo quando ho cominciato a tradurre La simmetria dei desideri, nel 2009. L’ho incontrato prima di cominciare a lavorare al romanzo, e poi l’ho consultato su incertezze e decisioni da prendere. Con il procedere della collaborazione (ho tradotto per Neri Pozza tutti i suoi romanzi successivi) è nata fra noi un’amicizia, anche grazie al fatto che lo accompagno come interprete nei suoi frequenti tour italiani. Abbiamo la stessa età, abbiamo figli della stessa età, riflessioni comuni e generazionali che ci permettono di capirci bene. Tre o quattro anni fa Eshkol ha cominciato a scrivere una rubrica settimanale per Vanity Fair (che è diventata anche un libro, Vocabolario dei desideri, esistente solo in italiano), e il confronto fra noi è diventato molto assiduo. Questa continuità, questa conoscenza profonda, una certa affinità di spirito e interessi, il tempo che passa per entrambi, mi permettono di immergermi nel contesto interiore in cui nascono i suoi libri, e questa è di certo la chiave della riuscita delle traduzioni.

 

Cosa rende così speciale la sua scrittura e cosa ne spiega il grande successo in Italia?

Le sue tematiche ricorrenti sono care agli italiani: amicizia, amore, famiglia. Il romanzo fluisce, sorprende, fa riflettere, e ha sempre una magistrale struttura portante.

 

Quale libro israeliano vorrebbe proporre per una traduzione in italiano?

Propongo spesso libri agli editori con cui collaboro, qualche volta li acquistano, altre no. Approfitto di questo spazio per confessare un mio vecchio sogno nel cassetto, abbandonato da molti anni anche perché l’autore, che desideravo ardentemente conoscere di persona, ci ha lasciati nel 2006. S. Yizhar ha raggiunto la notorietà in Israele tra gli anni Quaranta e primi anni Cinquanta (in Italia Einaudi ha pubblicato nel 2005 il suo racconto più famoso, scritto nel 1949, con il titolo La rabbia del vento) e dopo quarant’anni di silenzio ha ripreso a scriver nel 1992. La mia prima traduzione letteraria è stata proprio, nel 1999, un racconto tratto dalla raccolta uscita nel 1992, s’intitola Un pianoforte solitario nella notte. Avevo incontrato S. Yizhar, mentre scrivevo la tesi di laurea ed ero affascinata dal coraggio inventivo del suo linguaggio e dalla sua integrità etica. Mi piacerebbe anche tradurre Hashoah shelanu (La nostra shoah), romanzo di Amir Gutfreund, autore del magnifico Per lei volano gli eroi (Neri Pozza 2021).

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