Dal Cairo: intervista a Hussein Mahmoud, docente e traduttore dall’italiano verso l’arabo
Autore: Davide Scalmani, Director of the Italian Cultural Institute in Cairo
Hussein Mahmoud è un insigne italianista egiziano, attualmente preside della facoltà di lingue e traduzione dell’Università Badr Cairo. Ha insegnato lingua e letteratura italiana nelle maggiori università egiziane e tradotto in arabo testi classici della letteratura italiana. Giornalista e critico letterario, ha scritto per vari quotidiani e periodici di lingua araba.
Come ti sei avvicinato alla lingua italiana?
Desidero innanzi tutto ringraziare l’Istituto Italiano di Cultura del Cairo e i suoi direttori, cominciando dal primo, l’arabista Umberto Rizzitano. Sono cresciuto tra queste mura e particolarmente in questa biblioteca dove ora ci troviamo, anche grazie alle borse di studio che ho ricevuto dall’Istituto.
Come mi sono avvicinato alla lingua italiana? Devo dire che tutto è successo per puro caso. In Egitto abbiamo un sistema di iscrizione all’università molto particolare, in quanto lo studente non ha la possibilità di scegliere esattamente quale disciplina studiare e neanche a quale università iscriversi.
Dopo l’esame finale della scuola superiore, venni a sapere che mi avevano assegnato alla facoltà di Scienze dell’Università di Al Menia, molto lontana dal Cairo, quasi 300 km. Fortunatamente esisteva anche la possibilità di essere assegnati a uno dei diversi dipartimenti di lingue. E a me toccò il dipartimento di lingua tedesca della Facoltà di Lingue “Al Alsun”. Avrei preferito studiare inglese, ma il trasferimento mi fu negato. Per evitare il tedesco, mi fu prospettata la possibilità di scegliere l’italiano. Fu così, un po’ per caso, che cominciai a studiare la lingua italiana, e ad amarla, grazie agli insegnanti che ho avuto.
Poi dall’amore per l’italiano, sei passato all’amore per l’insegnamento?
No, ho cominciato a insegnare la lingua italiana solo vent’anni dopo la laurea. Durante questi vent’anni ho lavorato come giornalista, come redattore e traduttore, utilizzando soprattutto la l’inglese come lingua veicolare. Ho lavorato però anche presso l’agenzia italiana ANSA per quasi un anno e ho collaborato un po’ con la televisione italiana. Nel 1999, quando ho lasciato il giornalismo, ero il direttore della redazione di “October”, una rivista cairota molto importante, vicina all’ex presidente Sadat. Ho lavorato anche in Arabia Saudita per diverse testate di prestigio come “Ashark al-Awsat” e altri simili. Conseguito poi il dottorato in lingua e letteratura italiana, sono tornato al lavoro accademico e all’università. Mi sono consultato con i membri della mia famiglia e ho chiesto ai miei figli “Preferite che vostro padre continui a fare il giornalista o che insegni all’università?”. E loro hanno scelto l’università. Io obbedisco, come tutti i padri che obbediscono ai loro figli.
Prima giornalista, poi professore universitario. Ma non hai mai smesso di fare il traduttore?
Io traduco ogni giorno. Anche quando ero studente all’università avevo l’abitudine di tradurre ogni giorno. E, ancora oggi, ogni sera mi metto alla scrivania per tradurre.
Il lavoro del traduttore è un costante confronto con qualcosa di difficile, con sempre nuovi problemi che sorgono a ogni parola, frase o capitolo. È un mestiere, per come lo vedo io, veramente faticoso…
Io non lo considero faticoso. È come il gioco degli scacchi: se ti piace, non ti è difficile giocarlo. È un gioco con le parole e con i significati. Il significato è sempre la cosa più importante nel processo di traduzione perché l’obiettivo finale è quello di trasferire il significato da una parte all’altra. Quando si deve trasportare un oggetto pesante da una parte all’altra, talora si ha bisogno di aiuto, ma se l’oggetto è leggero, è possibile effettuare il trasporto senza grandi difficoltà. Non condivido l’opinione di coloro che sostengono che il processo di traduzione è quasi impossibile. Non è vero. È sempre possibile tradurre, perché i significati che trasferisci da un codice all’altro sono universali. Certo, la traduzione di opere letterarie richiede effettivamente un allenamento…
Per te è l’allenamento quotidiano che fa la differenza. Nella mia esperienza, invece, c’è proprio la fatica del traslocatore… Nel gioco degli scacchi, poi, c’è sempre una soluzione giusta, quella vincente, invece quando si traduce non c’è mai una sola soluzione. Inoltre, una partita a scacchi si risolve nello stesso modo in ogni epoca, mentre una traduzione vecchia di trecento anni non è necessariamente ancora buona oggi. Questa è stata la mia esperienza di traduttore: non ero mai contento delle mie scelte perché sentivo che potevano essercene sempre di migliori, più semplici, più eleganti o più efficaci… Tu come affronti i problemi della traduzione, o magari non sono problemi per te?
Io non solo traduco, ma sono professore di traduzione. La traduttologia offre un aiuto importante a chi traduce oggi. Penso, ad esempio, al contributo di una studiosa importante a livello mondiale, Mona Baker. Le sue opere sono fondamentali nel campo dei “Translation Studies”. Questi studi mi hanno aiutato a trovare le soluzioni più vicine al testo di partenza. Poi c’è la “Machine Translation”. La mia prima esperienza di utilizzo della traduzione automatica è stata con un programma semplice prodotto da IBM. Era uno strumento “preistorico”, il cui programma non sapeva tener conto del contesto. Oggi invece nella traduzione automatica non ci sono più dubbi nella contestualizzazione dei diversi termini e significati. Io consiglio a coloro che vogliono fare i traduttori di approfondire i “Translation Studies”, grazie ai quali potranno trovare soluzioni altrimenti non raggiungibili utilizzando solo le proprie conoscenze personali. Poi, naturalmente, molto dipende dal tipo di testo. Se tu stai traducendo un manuale di istruzioni, il margine di libertà è pari a zero, se invece è un testo poetico, allora hai tutta la libertà di produrre un testo parallelo a quello di partenza.
Qual è la situazione della traduzione dall’italiano all’arabo in questo momento?
È solo all’inizio del secolo scorso, cioè del ventesimo secolo, che è cominciata veramente la traduzione di opere letterarie dall’italiano in arabo. Prima era rarissima. Ancora nel Novecento le traduzioni dall’italiano sono state scarse almeno fino agli anni Cinquanta. Ma dopo il 1956, quando è stata fondata la facoltà di lingue “Al Alsun” ed è stato inaugurato il dipartimento di italianistica, si è davvero cominciato a tradurre dall’italiano verso l’arabo. All’inizio si traduceva, più o meno, una opera all’anno. Poi, dagli anni Ottanta in avanti, con l’aumento del livello di istruzione in tutti i paesi arabi e a seguito di una crescente richiesta da parte delle classi più colte, le traduzioni dall’italiano sono diventate più numerose. Alberto Moravia è stato fra gli autori italiani più famosi e più tradotti nel mondo arabo, soprattutto negli anni Sessanta e Settabnta. Poi hanno avuto una grande notorietà autori come Italo Calvino e Umberto Eco. Oggi la domanda di traduzioni dall’italiano è diffusa e ampia, non solo in Egitto ma in diverse parti del mondo arabo, per esempio in Marocco e negli Emirati Arabi Uniti, dove c’è un progetto molto importante di traduzione dall’italiano che si chiama “Kalema” (“parola” in arabo). È un progetto molto ambizioso cui ho collaborato anch’io traducendo due libri.
Tu hai anche tradotto i classici: Dante Alighieri per esempio. C’è un interesse per i classici della letteratura italiana o li si legge solo all’università?
Dante Alighieri occupa un posto molto particolare nella storia della letteratura araba nel Novecento, soprattutto a partire dagli anni Trenta, dopo la pubblicazione del famoso articolo di Miguel Asín Palacios dedicato all’influsso delle fonti arabe e islamiche sulla Commedia. A partire dagli anni Settanta, poi, le opere di filosofi come Benedetto Croce e Antonio Gramsci vengono tradotte in arabo. L’interesse per la saggistica italiana è forte. Per esempio, io ho tradotto libri sul Cristianesimo, come Gesù di Nazareth di Ratzinger, libri di storia, come L’Islam visto da Occidente o Venezia porta d’Oriente, di Maria Pia Pedani.
Avresti un consiglio da dare a un ipotetico editore egiziano: quali libri tradurre oggi, nel 2023?
Molti studenti hanno bisogno di testi di saggistica, in particolare quelli che riguardano le discipline studiate alle università, per esempio la letteratura sull’emigrazione, un tema molto attuale. E poi, naturalmente, importantissimi sono i libri di storia dell’arte, perché per gli egiziani l’Italia è il paese dell’arte, del design e dell’architettura. Ma certamente il romanzo resta il genere preferito dal lettore egiziano, accanto alla poesia, che ha una tradizione antichissima in Egitto.
Quali sono i tuoi attuali progetti di traduzione?
Attualmente sto proprio ultimando un lavoro cominciato quasi quarant’anni fa: la traduzione del Decameron di Boccaccio. Esistono un paio di traduzioni in arabo del Decameron, una dallo spagnolo, ed è veramente una buona traduzione, e un’altra dall’italiano fatta da due giovani laureati della facoltà di lingue. Durante il mio dottorato avevo fatto una analisi comparativa tra il Decameron di Boccaccio e Le mille e una notte, ma ci sono cose del libro di Boccaccio che ho capito solo recentemente. Inoltre, questa opera è stata composta in un’epoca diversa da quella attuale: occorre perciò trovare il giusto equilibrio fra la lingua del Trecento in cui è stato scritto e la lingua attuale. Poi ci sono altri problemi che riguardano la tecnica narrativa di Boccaccio, un aspetto che forse è sfuggito ai colleghi che hanno affrontato la traduzione di quest’opera. Vorrei lasciare alle nuove generazioni la traduzione di un grande classico della letteratura italiana.
Non ti è bastato Dante…
È stata una sfida anche la traduzione della La vita nuova di Dante, perché per la prima volta il pubblico arabo ha preso coscienza del fatto che Dante non è solo l’autore della Divina Commedia. Anche nella Vita nuova, inoltre, troviamo l’eco della cultura araba, ad esempio del testo di Ibn al-Hazm sull’amore. E poi la Vita nuova è importante perché segna l’inizio dell’attività poetica di Dante.
Torniamo alla tecnica. Prima ci hai raccontato di quando hai usato il software della IBM.
Quali altri strumenti hai utilizzato?
Ho utilizzato tutti gli strumenti che la tecnologia ha prodotto per aiutare i traduttori, cominciando da una cosa chi si chiama “CAT Tools”, che significa “Computer Assisted Translation”. Sono programmi che creano una memoria che il traduttore utilizza per richiamare ciò che ha già tradotto. I “CAT Tools”, insomma, conservano la tua attività traduttiva, le tue scelte lessicali etc. E sono dunque particolarmente utili nella traduzione non letteraria, che copre linguaggi specifici, settoriali.
Dal punto di vista quantitativo il settore della traduzione non letteraria è molto più importante?
La traduzione letteraria occupa un ruolo marginale, richiede molto tempo ed è pagata poco. Nella traduzione di linguaggi settoriali, la tecnologia gioca un ruolo cruciale, anche se la traduzione automatica verso l’arabo deve ancora fare progressi rispetto a quanto accade nelle lingue europee. Oggi, l’intelligenza artificiale minaccia l’esistenza stesso del traduttore. Da un paio di anni le agenzie di traduzione europee richiedono di fare l’editing e la verifica di testi già tradotti automaticamente. Nei prossimi anni anche l’editing potrà essere realizzato dalla “machine translation”. All’uomo resterà solo la fase di verifica della traduzione fatta dalla macchina. Tuttavia, non è difficile prevedere che altri programmi intelligenti saranno a breve termine capaci di verificare la qualità della traduzione prodotta dalla macchina. Stiamo andando verso un futuro, per quanto riguarda questo campo, molto oscuro…
Ma tu consiglieresti oggi ad un giovane che vuol fare il traduttore di intraprendere questa carriera?
Sì, certamente. E gli consiglierei di continuare a tradurre, anche la macchina minaccia la sopravvivenza del suo lavoro… Glielo consiglierei pensando alla mia esperienza, perché io posso servirmi della macchina, ma non posso smettere di fare la cosa che amo fare.
Insomma, sono le emozioni al centro, la parte che sostiene tutto il resto o che trascina tutto il resto…
Si, sono le emozioni che contano, anche nel campo della scienza e della tecnologia, perché, in fin dei conti, ogni progresso dovrebbe avere come obiettivo una vita più felice.