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15 Novembre 2021

L’italiano vivente. Intervista a Mariarosa Bricchi, storica della lingua italiana

Autore:
Laura Pugno per ITALIANA

Mariarosa Bricchi insegna Linguistica italiana all’Università di Pavia, sede di Cremona. Si occupa in particolare di prosa otto-novecenteca, e di lessico e grammatica tra il XVIII secolo e il presente. All’italiano delle traduzioni ha dedicato il volume La lingua è un’orchestra. Piccola grammatica italiana per traduttori (e scriventi) (il Saggiatore, 2018). Ha recentemente curato le edizioni di Curzio Malaparte, Il buonuomo Lenin (Adelphi, 2018) e di Carlo Emilio Gadda, Norme per la redazione di un testo radiofonico (Adelphi, 2018). Il suo ultimo libro è Manzoni prosatore. Un percorso linguistico (Carocci, 2021).

Gli Stati Generali della Lingua italiana nel Mondo organizzati dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, qualche anno fa, avevano per tema “l’italiano lingua viva”. E una lingua viva è necessariamente in trasformazione. Come cambia – nell’anno del settecentenario di Dante Alighieri – l’italiano di oggi, tra regole e libertà, apporti dalle lingue straniere e dai nuovi parlanti? 

L’italiano, come tutte le lingue, è un organismo vivente. Cammina, evolve e involve, si sporca e si arricchisce, è soggetto a modificazioni continue: per citare solo l’aspetto più riconoscibile, quello lessicale, ci sono parole e forme nuove che si fanno strada; talvolta esplodono nella moda di un momento e poi si ritirano; e ci sono altre parole che, dopo decenni o secoli di onorata militanza, progressivamente impallidiscono fino a uscire dall’uso. Questa vitalità non deve però farci dimenticare che la nostra lingua è antica, e in modo particolare che l’italiano fondamentale, quello zoccolo duro di poche migliaia di parole che tutti diciamo e scriviamo più spesso, risale alle origini stesse dell’italiano. In uno studio molto citato il linguista Tullio De Mauro ha calcolato che quando Dante ha incominciato a scrivere la Commedia era già in uso il 60% del vocabolario fondamentale di oggi; e all’incirca un secolo dopo, alla fine del Trecento, la percentuale era salita al 90%. A guardare questi dati, il tasso di rinnovamento pare limitatissimo. La situazione cambia, però, se dalle parole di base ci spostiamo al lessico più colto, oppure ai termini specialistici, scientifici o tecnici, alle parole legate all’attualità; alla morfologia e alla sintassi. In tutti questi ambiti, i cambiamenti sono stati, e continuano a essere tanti, e ininterrotti.

Negli anni Ottanta del secolo scorso la linguistica ha isolato una serie di caratteristiche tipiche di quello che veniva definito “italiano neostandard”. Erano usi, spesso, già presenti anche in passato, ma emarginati e avversati dalla grammatica tradizionale; e finalmente accolti senza problemi nel parlato e nello scritto non formale. Un elenco che oggi, a distanza di quarant’anni, va integrato e aggiornato. Cresce, certo, l’influenza dell’inglese, ma si moltiplicano le lingue straniere a cui attingiamo nuove forme e nuovi termini; e cresce il peso dell’italiano parlato da chi è arrivato qui ancora senza saperlo; gli italiani locali, con le loro coloriture e la loro vivacità, circolano e arricchiscono la lingua di base; cambiano, sulla spinta delle urgenze del presente, gli ambiti d’uso di parole vecchie (pensiamo a virus, un termine latino entrato in italiano, attraverso il francese e l’inglese, a metà Ottocento; impiegato, dagli ultimi decenni del Novecento, in ambito soprattutto informatico; e oggi tornato prepotentemente – e tristemente – alla ribalta nel suo significato medico-scientifico); premono questioni dove la grammatica si intreccia con rinnovate visioni della società (il discusso problema della femminilizzazione, non solo dei nomi di professione, ma dello stesso sistema degli accordi grammaticali).

C’è, per chiudere, un altro dato interessante. Insieme alla lingua, è cambiato il modo di descriverla, perché la grammatica di oggi non è normativa come quella del passato: piuttosto che imporre regole rigide, tende a spiegare direzioni e tendenze, tiene conto non solo dell’italiano letterario, ma della lingua nella sua varietà e molteplicità, guidando ad adattare forme e parole alla situazione e al contesto; riconosce, accanto alle norme, spazi di libertà e di creatività e incoraggia i parlanti a servirsene con consapevolezza.

 

L’Italia è da sempre uno dei Paesi in cui si traduce di più. Oggi, però, il libro italiano nel mondo conosce un nuovo dinamismo grazie a una rinnovata attenzione alla traduzione da parte di Paesi come, ad esempio, la Francia e gli Stati Uniti, grazie anche all’influsso dei media (pensiamo all’”effetto Ferrante”…) e agli importanti contributi che sono stati erogati, dalla Farnesina e dal Centro per il Libro e la Lettura (Cepell), per sostenere il comparto editoriale. Da studiosa, come leggi e interpreti questi fenomeni? Che cosa ci dicono sull’impatto della letteratura italiana a livello internazionale? Quali sono le tendenze all’opera? 

Sì, l’attenzione e il sostegno alle traduzioni dall’italiano sono positivamente in crescita, sia con i contributi economici stanziati dalla Farnesina e dal Centro per il Libro e la Lettura (fondamentali, per l’editoria, e attivi già da decenni per altre letterature nazionali) sia con la diffusione di informazioni mirate (il sito newitalianbooks e il suo antenato, booksinitaly ne sono ottimi esempi). Accanto alla traduzione delle novità, di narrativa e di saggistica, una tendenza che mi pare molto significativa è la riscoperta dei nostri classici. Che ha, naturalmente, un impatto non solo sulle abitudini di lettura, ma anche sui percorsi di ricerca, dunque sugli studi che in altri paesi si dedicano alla lingua e alla letteratura italiane. Vorrei citare tre esempi, tutti importanti e, mi auguro, destinati a non rimanere isolati. Il primo è l’edizione inglese, pubblicata qualche anno fa, dell’opera completa di Primo Levi: un’operazione con pochi precedenti, che ha comportato la nuova traduzione di alcune opere e la revisione completa di traduzioni già disponibili, tutte realizzate entro un progetto comune, che si è avvalso della consulenza scientifica del Centro Internazionale di Studi Primo Levi di Torino. Secondo esempio: le traduzioni in corso, presso Penguin in Inghilterra e Sexto Piso in Spagna, di diverse opere di Gadda. Infine, l’uscita imminente di una nuova traduzione inglese dei Promessi sposi – evento davvero epocale, che sarebbe bello funzionasse da apripista per la riscoperta di quel Manzoni tanto noto da noi quanto ignorato all’estero.

 

Le traduzioni hanno un impatto importante sull’italiano di oggi? 

Che molti dei testi che leggiamo sono traduzioni lo sappiamo tuti. La nostra lingua è anche quella filtrata attraverso le parole dei traduttori. Che sono, devono essere, scriventi esigenti, iperspecializzati, consapevoli. Partendo da lingue straniere, i traduttori all’italiano arrivano per costruire il loro lavoro, e all’italiano chiedono cose non diverse da quelle che, oltre tre decenni fa, elencava Italo Calvino: “Credo che la prosa richieda un investimento di tutte le proprie risorse verbali: scatto e precisione nella scelta dei vocaboli, economia e pregnanza e inventiva nella loro distribuzione e strategia, slancio e mobilità e tensione nella frase, agilità e duttilità nello spostarsi da un registro all’altro, da un ritmo all’altro”. L’avventura di tradurre approda alla nostra lingua e, nei casi di qualità (che sono, oggi, piuttosto numerosi), si serve consapevolmente non solo della competenza nativa, ma degli strumenti della grammatica, della lessicografia, della letteratura italiana: un patrimonio di conoscenze a disposizione di chi traduce per arricchirne le competenze. Ma c’è anche l’inverso. I traduttori possono fare molto per la lingua (e anche per la grammatica) italiana: conoscerla, rispettarla, trasgredirla, forzarne, se opportuno, i limiti – che è un diritto sacrosanto degli utenti. Soprattutto, passeggiarci dentro con una miscela di estro e consapevolezza, farne un uso non solo corretto o volutamente eslege, ma responsabile.

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