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14 Aprile 2021

Intervista a René de Ceccatty

Autore:
Paolo Grossi

A partire da aprile, newitalianbooks pubblicherà, in partenariato con il sito francese Actualitté, una serie di interviste con personalità che, a diverso titolo, svolgono un ruolo importante di mediazione fra l’editoria francese e quella italiana (critici letterari, saggisti, traduttori, editori, librai etc.).

Oggi, nostro ospite è René de Ceccatty. Traduttore di numerosi libri di autori italiani (Pasolini, Leopardi, Saba, Moravia etc.), editore, drammaturgo, romanziere, si è dedicato in modo particolare, in questi ultimi anni, alla traduzione di diverse opere di Dante: la Commedia, integralmente e in versi ottosillabi, la Vita nova e il Convivio.

La Francia è uno dei Paesi che più traduce e pubblica libri italiani. Qual è il suo giudizio complessivo sulla situazione della traduzione di libri italiani oltralpe?

I libri italiani (narrativa, poesia, saggistica, teatro) sono effettivamente molto tradotti in francese, e questo per molte ragioni. La prossimità tra le due lingue semplifica il lavoro del traduttore (rispetto ad altre lingue, anche neolatine) e vi è una incontestabile affinità culturale, una familiarità che rendono la lettura, soprattutto dei romanzi, particolarmente attraente per i lettori francesi. D’altra parte, però, l’insegnamento della lingua italiana è paradossalmente assai poco diffuso in Francia e rari sono, di conseguenza, i Francesi in condizione di leggere direttamente questa letteratura. Da qui l’esigenza di numerose traduzioni.

I turisti francesi che si recano in vacanza in Italia, affascinati dalle sue ricchezze artistiche e culturali e dalla varietà dei paesaggi, sentono poi l’esigenza di approfondire con la lettura le loro esperienze di soggiorno (a Roma, Firenze, Venezia, Milano, Napoli, in Sicilia o ai laghi). Né si può trascurare il ruolo che ha svolto il cinema nel far scoprire la letteratura. Penso non solo ai grandi registi, come Fellini, Visconti, Pasolini, Antonioni, Bertolucci, Scola o Mauro Bolognini, ma anche ad attori o attrici: Claudia Cardinale è stata la protagonista di innumerevoli film tratti da altrettanti romanzi-chiave del Novecento (Gli indifferenti, La Storia, Il bel Antonio, Il Gattopardo, Senilità, La ragazza di Bube : è grazie alle sue interpretazioni che molti Francesi hanno scoperto Moravia, Elsa Morante, Brancati, Lampedusa, Svevo, Cassola…).

Si può dire perciò che l’editoria francese ha tenuto il passo, spesso con grande tempismo, delle uscite editoriali italiane, anche se vi sono state, qua e là, alcune eccezioni di rilievo. I lettori francesi insomma non hanno perso i grandi eventi letterari e i grandi scrittori italiani, da d’Annunzio in avanti, diciamo. Moravia, Pavese, Vittorini, Calvino, Elsa Morante, Lalla Romano, Gadda, Anna Maria Ortese, Pasolini, Bassani, Soldati, Francesca Sanvitale, Natalia Ginzburg, Rosetta Loy – e tanti altri grandi scrittori, fino agli autori d’avanguardia del Gruppo 63 – sono stati immediatamente tradotti, più o meno felicemente. Nel settore della narrativa, numerose sono state le traduzioni, anche degli autori più recenti (Elisabetta Rasy, Sandro Veronesi, Nicola Lagioia e, naturalmente, Elena Ferrante, che costituisce un fenomeno editoriale paragonabile a quello di Umberto Eco), i quali spesso ottengono in Francia un successo paragonabile a quello riscosso nel loro paese d’origine. Quando si fa un bilancio delle traduzioni fino all’inizio degli anni Novanta, bisogna rendere omaggio a forti personalità che si impegnavano a far conoscere una letteratura che conoscevano a fondo (Maurice Nadeau, Georges Piroué, François Wahl, Hector Bianciotti, Patrick Mauriès, Samuel Brussel, Mario Fusco, Jean-Noël Schifano, Dominique Fernandez, Michel Arnaud, Bernard Simeone, Jean-Paul Manganaro, ma occorerebbe citarne ben di più, tra critici, editori, traduttori o docenti, come Jean-Michel Gardair che era lui stesso professore, traduttore e scrittore). La poesia, poi, pone dei problemi specifici. Se Quasimodo, Montale, Zanzotto, Pasolini, Mario Luzi, Giorgio Caproni, Attilio Bertolucci, Leonardo Sinisgalli, Patrizia Cavalli sono stati tradotti, nel complesso, tempestivamente, la difficoltà di trovare dei traduttori all’altezza dei poeti, cioè dei traduttori che siano in grado di rendere un’idea del testo originale, fa sì che il risultato talvolta non eserciti sui lettori francesi lo stesso fascino. In più, occorre dirlo, la poesia gode di maggior fortuna in Italia che in Francia. Per quanto riguarda i classici, se si eccettuano nomi come Dante, Petrarca, Boccaccio, Basile, Masuccio Salernitano, Tasso, Ariosto, Goldoni, Gozzi (ora di nuovo di moda), che appartengono al patrimonio europeo, e dunque francese, sin dai loro tempi e sono stati immediatamente integrati dalla cultura francese, su cui, del resto, hanno esercitato una grande influenza, ci si rende conto che invece Vico, Leopardi, Manzoni, scrittori considerati come fondamentali nella cultura italiana, non hanno goduto fino ad un’epoca recente, di un eguale rilievo in traduzione francese. Ad eccezione dei Canti, l’opera di Leopardi è stata tradotta solo di recente e il suo statuto di filosofo è stato a lungo ignorato. E in Francia non è mai stata riconosciuta a Alessandro Manzoni la statura di grande romanziere, pari a Stendhal, Flaubert, George Sand o Balzac. Nei suoi confronti c’è una forte resistenza da parte francese, nonostante egli stesso fosse di cultura in parte francese ed abbia potuto vedere subito tradotte le sue opere. Collodi ha avuto più fortuna di lui! Ma Walt Disney ha avuto un certo peso! Quanto alla letteratura più recente, anche se degli scrittori viventi (o da poco scomparsi) sono autori di culto in Francia (come Antonio Tabucchi o Erri De Luca, che hanno preso, in un certo senso, il posto fino ad ora occupato da Italo Calvino), lo stato della letteratura italiana attuale non è lo stesso di trent’anni fa. E dunque il favore di cui godeva è in parte diminuito. Mi permetto di segnalare un caso eccezionale: la riscoperta in Francia dell’opera di Goliarda Sapienza, che la traduttrice Nathalie Castagné ha così efficacemente sostenuto, traducendola, ma anche presentandola attraverso incontri in libreria e interviste, che è diventata un vero caso editoriale, tanto da indurre l’editoria italiana a riconsiderare la sua opera. Ora, Goliarda Sapienza, ripubblicata integralmente da Einaudi, ha trovato il suo posto nella storia letteraria italiana, che l’aveva sin qui trascurata. Si tratta di un caso di effetto boomerang che, per la sua singolarità, merita di essere segnalato. Quanto alla filosofia italiana, si può che sia ben viva e ampiamente tradotta. La presenza di un docente italiano al Collège de France sino all’anno scorso (Carlo Ossola) rivela tutto il rispetto che ispira il pensiero italiano. Agamben e più recentemente Roberto Esposito sono stati oggetto di traduzione, come molti altri, del resto, fra cui Roberto Calasso e Claudio Magris. Un’intellettuale come Maria Antonietta Macciocchi ha svolto un ruolo incontestabile nel dialogo politico e filosofico tra Francia e Italia.

 La letteratura italiana del secolo scorso, quella del Novecento, trovo il posto che merita negli scaffali delle librerie francesi?

Ho appena risposto in parte, a proposito di Leopardi e di Manzoni. Ma ci sono certamente molte altre lacune. Tra i poeti, Carducci e Pascoli sono ampiamente ignorati. Ippolito Nievo è tradotto, ma è considerato come una curiosità e non fa parte del ristretto novero degli autori che non si possono ignorare. Naturalmente, occorre distinguere fra gli studi universitari e la presenza in libreria o sui media generalisti. I docenti di italiano si allineano fedelmente alla scala di valori dei loro omologhi italiani. Le edizioni delle Belles-Lettres o i Cahiers de l’Hôtel de Galliffet rimediano alle lacune relative a questi due secoli. Ma qui parlo della presenza in libreria e della cultura dei lettori curiosi, ma non specialisti. Allo stesso modo molti scrittori tra Ottocento e Novecento o dell’inizio del XX secolo De Roberto, Verga, Borgese sono misconosciuti in Francia, anche se sono stati tradotti, in particolare grazie a Jean-Baptiste Para che nella sua collana L’Arpenteur ha posto rimedio a molte ingiustizie. Si potrebbe poi prendere in considerazione la situazione del teatro, in cui Eduardo De Filippo continua ad essere rappresentato, seppur meno di Pirandello, ma in cui Raffaele Viviani è praticamente sconosciuto, anche se Alfredo Arias l’ha messo in scena, in italiano, a Napoli, prima di far venire la compagnia in Francia.

Negli ultimi anni, Lei ha soprattutto pubblicato traduzioni di grandi autori della letteratura italiana, come Dante e Petrarca. In questo specifico settore, quello dei “classici”, resta ancora molto lavoro da fare?

La traduzione dei classici ha una sua specificità. Come ho già detto, spesso sono stati immediatamente tradotti, e sono stato oggetto di rivisitazioni di secolo in secolo. Ma sono traduzioni datate, che obbediscono a criteri mutevoli. Oggi, si danno due diverse prospettive: quella accademica, che è l’equivalente, si può dire, d’une eccellente versione scolastica, destinata ad ottenere il voto più alto, perché il traduttore ha perfettamente compreso tutte le sfumature, lessicali e sintattiche, dell’originale, e ha trovato delle espressioni equivalenti e senza ambiguità, ma non necessariamente di grande ispirazione poetica, né di grande eleganza. “Ispirazione” e “eleganza” sono concetti soggettivi, opinabili, mutevoli. Ed è comprensibile che non siano tenuti sempre in considerazione in un valutazione “accademica” dell’eccellenza di una traduzione. Invece, quando si esce dalla sfera universitaria, i criteri cambiano. Il traduttore deve essere un mediatore che permette al lettore profano, non specialista, di avere un rapporto letterario diretto con il testo. In questo caso, il traduttore gode di una più ampia libertà. Ed è questa libertà che io mi sono concessa traducendo la Divina Commedia, sapendo che esistevano numerose altre traduzioni che obbedivano ad altri criteri, alcune delle quali a criteri opposti ai miei, altre più vicine ad un’esigenza di leggibilità (Jacqueline Risset), altre in versi più o meni artificiosi, che costringono ad acrobazie di significato e di forma, altre in un prosa fluida, ma piatta, altre ancora in un lingua arcaizzante che rasenta l’oscurità, altre totalmente incomprensibili senza note, etc. Ognuna di esse aveva una sua logica che io rispetto pur non condividendola. Per tradurre Pétrarca, ma anche la Vita nuova di Dante, sono stato molto più fedele all’originale, perché disponevo dell’esempio dei poeti francesi della Pléiade che aveva già proposto una interpretazione molto francese della poetica del dolce stil nuovo e del petrarchismo. Per i classici, ci sarà sempre un nuovo lavoro da fare, perché nessuna traduzione è “definitiva”, né può essere considerata come la versione di riferimento. Certo, Boccaccio, benché sia stato tradotto molte volte, non ha ancora trovato il traduttore capace di rendere appieno alle novelle del Decameron la vitalità, la fantasia, l’erudizione profonda e ardita. Boccaccio aspetta il suo Baudelaire…

Quali sono gli autori italiani su cui lavora attualmente, come traduttore o come saggista?

Tradurrò Il pane perduto d’Edith Bruck, una scrittrice di origini ungheresi ma italofona poiché vive in Italia dalla metà degli anni Cinquanta. Ex deportata, una parte della sua famiglia è stata sterminata. Al ritorno dai campi di concentramento, ha vissuto in Cecoslovacchia, poi in Israele prima di stabilirsi in Italia, dove ha sposato il poeta e regista Nelo Risi. L’ho scoperta solo di recente, per caso, grazie a un’intervista di Luce D’Eramo, che ho letto lo scorso anno allorché Feltrinelli mi aveva chiesto di scrivere una prefazione al suo romanzo Ultima luna. Non so proprio spiegarmi come l’opera, di grandissimo valore, d’Edith Bruck mi fosse sfuggita. È stata una rivelazione e ho convinto le Éditions du Sous-Sol (il cui direttore, Adrien Bosc, lavora anche alle Éditions du Seuil, in cui io stesso sono editor) a pubblicarla. Era da parecchio che non sentivo di trovarmi in presenza di uno scrittore di tale levatura, di uno scrittore, in ogni caso, che mi parlava direttamente. Tre dei suoi libri erano già stati tradotti in francese presso le edizioni Kimé, su suggerimento della sua traduttrice Patricia Amardeil e del direttore di collana Philippe Mesnard, specialista della Shoah. Ma, per quanto ammirevoli, erano passati inosservati. Tradurrò inoltre, per celebrare il centenario della nascita, una straordinaria intervista che Pasolini diede a un giornalista irlandese, Oswald Stack, conosciuto anche sotto il nome di Jon Halliday. Coltivo altresì il progetto di un’antologia di Sandro Penna, autore di cui ho già tradotto le prose (Un peu de fièvre) e, in rivista, varie sue poesie. Ho appena tradotto le poesie di Moravia per Flammarion. Mi sono sforzato di concentrare il mio lavoro di traduttore e di saggista su autori che per me avevano un’importanza capitale e per i quali sentivo l’urgenza di una mia personale necessità di tradurre (come Giuseppe Bonaviri, per esempio), autori cui, per una ragione o per un’altra, mi sentivo vicino letterariamente, umanamente, come Pasolini, Moravia o Leopardi, a cui del resto ho dedicato dei libri. Tradurre Umberto Saba (di cui ho tradotto numerose poesie e praticamente tutta la prosa, poiché ho anche ritradotto Ernesto, il suo capolavoro) è stata per me un’esperienza fondamentale. Quando dico fondamentale, voglio dire che tocca anche la mia attività di scrittore, dato che io stesso scrivo. Quello che cerco è proprio questo dialogo. Grazie alla reclusione imposta dalla pandemia, mi sono concentrato su un’altra lingua che ho tradotto a lungo, il giapponese. Per trent’anni, ho tradotto scrittori giapponesi classici e moderni (seguendo gli stessi criteri di selezione che avevo adottato per l’italiano) assieme a un amico giapponese, Ryōji Nakamura che ora insegna letteratura comparata in una grande università di Tokyo. Ho deciso di fare il grande passo e di tradurre da solo dei romanzi giapponesi. Ho appena tradotto Botchan di Natsume Sōseki (un autore di cui avevo tradotto sei libri con Ryōji) e sto portando a termine in questi giorni la traduzione de Il paese delle nevi di Kawabata. Sono esercizi che mi sono imposto, non senza una certa apprensione, perché sono lavori “senza rete di salvataggio”. Ma sentivo il bisogno di approfondire la conoscenza di questa lingua di cui, nonostante la mia famigliarità con la cultura giapponese, che ho frequentato quasi tanto a lungo quanto quella italiana, non avevo, da solo, una padronanza pari a quella dell’italiano, per ragioni facili da capire. Il confronto di culture mi sembra importante: non solo tra la propria cultura materna e un’altra cultura, mais tra più culture insieme. Del resto, è stata proprio la mancanza che sentivo di non tradurre più dal giapponese che mi ha spinto a tradurre la Divina Commedia. Era inevitabile che dopo aver tradotto Dante ritornassi al giapponese. Kenzaburō Ōe, un autore di cui ho tradotto con Ryōji Nakamura diversi libri, è del resto appassionato di Dante, che cita spesso. E si è anche fatto fare un timbro con delle terzine di Dante come una sorta di dedica. Per quanto riguarda poi scritti saggistici o biografici su scrittori italiani, non so ancora. Sono felice del successo che ha incontrato (in parte grazie alla traduttrice, Sandra Petrignani, che gode in Italia di un meritato prestigio) la mia biografia di Elsa Morante, perché temevo che il fatto di essere francese e di non aver adottato un tono agiografico fossero considerati come difetti, e invece è stato esattamente il contrario! E sono anche felice che la mia biografia di Sibilla Aleramo (a proposito di autori che, in Francia, benché tradotti, non hanno il riconoscimento che meritano) già tradotta da Mondadori sin dalla sua prima pubblicazione in Francia, venga ora riedita in Italia, presso un piccolo editore di testi filosofici, inschibboleth, che tradurrà anche un libro che ho scritto nel 1994, L’accompagnement, che non ha rapporti diretti con l’Italia e la sua letteratura, anche se tutto ciò che scrivo è sempre, in un modo o nell’altro, legato a questa mia seconda patria.

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