Intervista a Antonio Werli. Tra istinto poetico e indole archeologica: per una traduzione polifonica di Horcynus Orca
Autore: Letizia Imola, Universität Lüttich-Universität Mons
Antonio Werli ha tradotto con Monique Baccelli per la prima volta in francese Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Il loro lavoro a quattro mani è stato pubblicato a ottobre 2023 da Le Nouvel Attila.
A parte una piccola dose di follia… perché ha scelto di tradurre questo libro e questo autore?
Ho scoperto D’Arrigo in un periodo in cui mi occupavo di critica letteraria e avevo appena iniziato a tradurre. Mi ero imbattuto nel commento di una persona che lo accostava a due scrittori che ammiro, Landolfi e Gadda, suscitandomi molto interesse. Purtroppo, Horcynus Orca era fuori catalogo. Ho fatto varie ricerche, finché ho trovato un PDF della prima edizione. Mi sono innamorato perdutamente del testo. Un giorno ne ho parlato a Benoît Virot di Nouvel Attila, dicendogli che era un libro che avrebbe dovuto pubblicare. È un editore che non si tira indietro di fronte a progetti un po’ folli. (Alla fine, sì, di follia si tratta). Mi dice che una traduttrice gliene aveva già parlato e mi consiglia di contattarla. Monique Baccelli mi risponde che le piacerebbe molto tradurlo, ma che vorrebbe un partner. Decidiamo di fare una prima prova e di inviarla all’editore. Poi ci siamo riuniti per discuterne e abbiamo riconosciuto che tutti e tre eravamo innamorati del progetto, del testo, di tutto ciò che poteva significare, e che bisognava buttarsi nell’impresa. Era il 2013, più di dieci anni fa.
Qual era la sua opinione sulle traduzioni collaborative? E che metodo avete adottato?
Io avevo un po’ di esperienza di collaborazione, perché anche la mia compagna è traduttrice e abbiamo lavorato spesso insieme. Per Monique credo che sia stata un’esperienza abbastanza nuova. Lei è una traduttrice molto esperta, dunque per me è stata una sorpresa che volesse intraprendere il lavoro a condizione di realizzarlo a quattro mani; era ben consapevole delle sfide che comportava. Il nostro metodo si è evoluto col tempo, perché è un libro che si è scritto nel corso degli anni. Vale la pena ricordare che D’Arrigo ha impiegato vent’anni per scriverlo e che presenta diversi strati di lavoro. Per la traduzione è stato lo stesso. Siamo partiti con l’idea che ciascuno avrebbe tradotto brevi brani e li avrebbe inviati all’altro, rileggendoci a vicenda. Tuttavia, ci siamo presto resi conto che non avevamo lo stesso ritmo: Monique era più agile nelle prime stesure, mentre io dedicavo più tempo alle revisioni, cercando di risolvere il maggior numero possibile di problemi che spuntavano di continuo. Alla fine, lei ha realizzato la maggior parte della prima stesura, mentre io mi sono dedicato alla rilettura dettagliata, alle ricerche, all’armonizzazione dello stile e a rintracciare tutti i nostri errori. Ci siamo scambiati i vari episodi più e più volte per discutere i diversi passaggi della traduzione. È stato lungo, laborioso, ma interessante e piacevole. Procedevamo un po’ alla volta, a scaglioni di 30 o 50 pagine. Terminata la prima parte – che è di circa 600 pagine – abbiamo ripreso in mano tutti gli estratti. Li abbiamo assemblati in un file che ognuno ha riletto più volte, prendendo di nuovo appunti, per continuare ad armonizzare e trovare le soluzioni migliori. Lo stesso è avvenuto per la seconda e la terza parte. Durante la revisione finale – essendo Monique molto anziana – è entrato in scena un nuovo “collaboratore”, il nostro editore, che è stato molto presente l’anno scorso quando ho riletto l’intero testo riga per riga insieme a lui.
Possiamo quindi dire che la vostra traduzione è polifonica e che riflette l’anima dell’opera stessa?
A: Lavorare in coppia implica già l’ibridarsi di due sensibilità, di due punti di vista e di due modi di tradurre. Inoltre, alla fine, alcuni commenti e suggerimenti di Benoît si sono rivelati fondamentali. All’improvviso è intervenuta una nuova voce. E poi, sia per Monique che per me, ci sono stati degli aspetti personali che hanno influito. Tra le altre cose, il fatto di essermi trasferito in Argentina ha influenzato alcune scelte che ho fatto nel testo. In particolare, lo spagnolo argentino è stato fortemente permeato dall’italiano tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, tanto che lo spagnolo parlato all’epoca dagli immigrati italiani aveva un nome: il “Cocoliche”, che poi è diventato il “Lunfardo”. Ero immerso in una lingua che aveva ereditato lo stesso processo produttivo realizzato da D’Arrigo con il siciliano e l’italiano. Mi ha aiutato molto nel prendermi delle libertà con il testo, nell’inventare e dirottare alcune espressioni, nel creare dei neologismi. Inoltre, la conoscenza di Monique del dialetto borgognone, del parlato marsigliese e del provenzale ci è servita per avvicinarci alle lingue del Mediterraneo, per lavorare sulle etimologie e sui giochi di parole, per inventare alcune cose. Queste voci che ci alimentano a livello personale finiscono anche da qualche parte nella traduzione. E poi c’è l’invenzione più generale: è evidente che si trae ispirazione da ciò che si sente per strada, dalla lettura di altri libri, dalle intuizioni di altri traduttori.
Quali peculiarità che avete individuato? E quali vi hanno creato maggiori difficoltà?
Da un lato, c’è la questione della lingua in sé, dato che Horcynus Orca non è scritto in un italiano standard. Dall’altro, c’è la voce di D’Arrigo in termini di sintassi, il modo in cui costruisce il discorso. Spesso si tratta di frasi molto lunghe, caratterizzate da un uso particolare della punteggiatura e da un respiro poetico fatto di ripetizioni, assonanze e allitterazioni. Non bisogna dimenticare che D’Arrigo è prima di tutto un poeta: il suo primo libro fu una raccolta di poesie. Anche nelle descrizioni più semplici, fattuali e oggettive di Horcynus Orca, c’è una costruzione poetica della frase. E questa è proprio una delle sfide della sua scrittura. È importante cercare di restituire questo intento poetico della prosa. La prima cosa che salta all’occhio sono i neologismi e le parole rare, ma in realtà il ritmo e il respiro sono aspetti essenziali per questa traduzione, perché si tratta di un romanzo epico, mitico: D’Arrigo accompagna il lettore in una vera e propria epopea del linguaggio. Il romanzo è ambientato nello stretto di Messina ed è cullato dalle sue correnti. La lingua stessa è costruita in questo modo, con ondate di frasi che si sovrappongono l’una all’altra. Per questo motivo D’Arrigo è stato paragonato a Proust e a Joyce. Ci sono frasi di grande potenza che addirittura sono costruite secondo i ritmi dello stretto di Messina: troviamo ripetizioni o allitterazioni a livello di parola, di frase, di paragrafo, di scena e dell’opera intera, con alcuni episodi ricorrenti o rievocati. Si tratta di un processo a spirale per cui si ritorna e ci si rituffa continuamente in un vortice dove gli elementi si ripresentano, ma sempre con lievi modifiche. È necessario comprendere questa costruzione del discorso per poter tradurre correttamente il libro.
Vengo ora alla lingua in sé. D’Arrigo utilizza la sua conoscenza del siciliano per alimentare l’italiano. Questo aspetto è abbastanza sorprendente, perché la maggior parte degli scrittori che hanno fatto uso del dialetto nella letteratura italiana della metà del XX secolo o poco dopo, in genere dialettizzavano o introducevano l’italiano nel dialetto. D’Arrigo fa il contrario. Fa entrare il dialetto nell’italiano, ma italianizzando. Si trovano parole di origine siciliana che lui trasforma. Dà loro una grafia italiana, in modo che non si abbia l’impressione di una parola siciliana o calabrese – o addirittura francese o inglese, visto che prende in prestito anche da altre lingue europee. Di colpo, il lessico dell’italiano aumenta a dismisura. D’Arrigo fa lo stesso anche con l’italiano antico, ma non riprende le parole tali e quali, bensì le trasforma in modo da dare l’impressione che siano assolutamente naturali. Questo serve a dare una sfumatura e talvolta persino un significato diversi. Non è solo la creazione di un linguaggio, ma anche di immagini e di una realtà che non può essere espressa in nessun altro modo. Ciò richiede una grande quantità di ricerche. A volte non si sa da dove venga una parola o cosa significhi esattamente. Bisogna cercarne l’origine e l’etimologia in dizionari e vocabolari, alcuni dei quali molto antichi, per capire il processo mentale di D’Arrigo. Poi, per restituirla, si deve fare la stessa cosa, cioè trovare parole di francese antico, di provenzale, o anche di altri dialetti e patois francesi e dare loro una forma moderna che permetta di capire la parola grazie all’etimologia e al contesto generale. Questo lavoro è stato estremamente difficile, perché nel libro ci sono cose davvero oscure, ermetiche, per le quali il traduttore deve operare una scelta e mettere in gioco il suo istinto poetico più che la sua indole razionale da archeologo.
È un’opera che richiede una conoscenza approfondita del bagaglio teorico dell’autore. In quali discipline avete dovuto immergervi?
Anche in questo caso, credo che ci siano due aspetti importanti. Il primo è rappresentato dai riferimenti letterari, il secondo dalle conoscenze tecniche. D’Arrigo usa parole molto tecniche relative alla fauna e alla flora dello stretto di Messina, ai vulcani, al vocabolario marittimo, alla navigazione, alla pesca. Sono diversi gli ambiti che alimentano la realtà del testo. Per fortuna, non diventa mai un trattato sui delfini e sulle orche, o sulle balene, come in Moby Dick, per esempio. Bisogna ovviamente conoscere il nome di un certo pesce, di una particolare corrente nello stretto di Messina, quindi abbiamo dovuto documentarci, ma è piuttosto un itinerario poetico all’interno di questi mondi. Monique, avendo vissuto a Marsiglia, conosceva molto bene i nomi delle barche e delle reti utilizzate dai pescatori! Poi c’è l’aspetto letterario. Il libro è pieno di riferimenti a Dante, Omero e Ariosto, ma o sono così trasparenti che non occorre decifrarli, oppure sono una rielaborazione di episodi che riecheggiano l’Odissea o l’Orlando furioso, ma senza essere mai un calco. D’altra parte, utilizza spesso personaggi, scene e metafore dell’Opera dei Pupi – i teatri delle marionette popolari in Sicilia e Calabria – per costruire alcune espressioni della sua lingua.