La parola al traduttore
4 Giugno 2025

Intervista a Brian Robert Moore, traduttore dall’italiano all’inglese

Autore: Federica Malinverno, newitalianbooks

Intervista a Brian Robert Moore, traduttore dall’italiano all’inglese

Le tue esperienze in Italia in ambito editoriale ti sono state utili per la carriera di traduttore?

Lavorando all’interno dell’ambiente editoriale si capiscono alcune dinamiche che non si imparano su un libro di testo, come il modo di proporre un romanzo a un editore. Nel mio caso ho lavorato alcuni anni in Italia nel gruppo Gems. Mi appassionava la ricerca dei libri da proporre in traduzione, ma mi piaceva anche lavorare sui testi in modo più creativo, per esempio traducendoli. Infatti, all’inizio ho lavorato come traduttore freelance producendo i samples, ovvero traducendo estratti di testi letterari. È una buona scuola per cimentarsi con vari stili e generi letterari (thriller, gialli, libri per ragazzi, young adult). Da quella esperienza ho capito che tradurre in particolare testi letterari mi piaceva molto.

 

 

Perché hai scelto di andare a Milano e di tradurre proprio dall’italiano?

Ho iniziato a studiare italiano all’università e ho subito sentito un’affinità con questa lingua. Poi ho studiato per un semestre a Bologna ed è stata un’esperienza molto formativa che mi ha fatto conoscere meglio la letteratura italiana. Avevo letto Calvino e Dante ma quando ero a Bologna, e specialmente negli anni a seguire a Milano, ho scoperto tanti altri autori che mi appassionavano e che non erano ancora stati tradotti in inglese. Allora ho pensato che avrei voluto tradurli io.

 

 

Cosa significa proporre un testo italiano a un editore inglese o americano? Quali sono le difficoltà maggiori?

Gli ostacoli sono tanti perché gli editori che sono interessati a pubblicare libri letterari in traduzione sono pochi, quasi tutti indipendenti, e pubblicano un numero di libri inferiore rispetto alle case editrici più grandi. C’è molto interesse per l’Italia in questo momento, ma forse gli editori cercano soprattutto un certo tipo di libri, specialmente di genere realistico, come storie di famiglie che riflettono una certa immagine dell’Italia. Mi sembra una situazione un po’ surreale perché in America l’autore più famoso e più amato del 900 italiano resta probabilmente Italo Calvino, che è un autore fantastico e metaletterario…

Per fare un esempio, è difficile proporre in traduzione un autore come Michele Mari, molto stimato in Italia, però con una lingua molto complessa. I suoi libri sono molto divertenti ma sono anche iperletterari: sono libri intrisi di altri libri. Ed è altrettanto difficile proporre un autore come Walter Siti – che scrive romanzi che indagano sulla società moderna attraverso un punto di vista personale – data la diffusione di un immaginario un po’ retrò della cultura italiana. In altre parole, sono autori che non rispecchiano quello che un editore o anche un lettore americano o inglese ha in mente quando pensa alla letteratura italiana, ma per me Mari e Siti sono così interessanti anche per questa ragione: perché, appunto, sono originali.

Anche se gli editori americani prediligono libri in cui si respira un’aria italiana, anche attraverso l’ambientazione, quando questi libri meno convenzionali vengono tradotti nel mondo anglofono risultano comunque molto apprezzati.

 

 

Quali sono gli autori italiani più in voga oggi negli Stati Uniti?

Oltre a Elena Ferrante, Natalia Ginzburg è un punto di riferimento importante. Sicuramente questo mi ha aiutato a trovare un editore per Lalla Romano. Nonostante siano autrici diverse, immagino che gli editor abbiano visto una potenzialità in Lalla Romano considerando proprio il successo dei libri di Natalia Ginzburg. In effetti, il primo libro che è uscito, A Silence Shared (Pushkin Press, 2023, Tetto Murato, pubblicato in Italia nel 1957, NDR) ha avuto recensioni molto positive, ed è stato finalista per vari premi. Ma siamo ancora all’inizio. Presto uscirà anche un suo secondo libro che ho tradotto e che considero il suo capolavoro, Nei mari estremi (Einaudi, 1987), con il titolo In Farthest Seas (Pushkin Press, 2023, in stampa). La trovo una scrittrice estremamente attuale, contemporanea. Tra le autrici italiane apprezzate negli Stati Uniti, non dimenticherei poi Elsa Morante e Alba De Céspedes.

 

 

Quanto contano i premi e le recensioni per il successo dei testi italiani tradotti in lingua inglese?

Se penso ai libri che hanno avuto più successo, come quelli di Elena Ferrante, non sono libri che hanno vinto tanti premi. Però le recensioni aiutano, così come i premi, vinti o per i quali si è finalisti.

Tra i vincitori di quest’anno dell’O. Henry Prize, un premio per racconti brevi che esiste da più di cento anni, c’era un racconto che ho tradotto di Michele Mari, che era già uscito su The New Yorker. In seguito al premio è stato pubblicato in un’antologia per l’editore Vintage, Best Short Stories 2024, che in genere vende piuttosto bene. Se alcuni lettori leggeranno il racconto di Mari grazie a questo premio, magari poi leggeranno tutta la raccolta Tu, sanguinosa infanzia (You, Bleeding Childhood, And Other Stories, 2023, Einaudi 1997) o il romanzo Verderame (Einaudi, 2007, Verdigris, And Other Stories, 2024).

Inoltre, si tratta di un traguardo importante perché quest’anno i racconti in traduzione che hanno vinto questo premio erano solo due su un totale di venti testi, quindi il dieci percento.

 

 

Ci sono difficoltà particolari nel tradurre dall’italiano all’inglese?

L’italiano, per come sono strutturate le frasi, è una lingua molto più flessibile. È molto più facile mettere l’enfasi dove si vuole. In inglese invece si fa soprattutto attenzione a mettere le parole nell’ordine giusto, in modo che tutto suoni naturale, e questo può diventare limitante. Ma secondo me le difficoltà maggiori dipendono dalla lingua e dallo stile degli autori specifici che si traducono.

 

 

Puoi farci qualche esempio?

Tra gli autori che ho tradotto, Lalla Romano ha una prosa che sembra semplice perché è molto spoglia ed essenziale, ma in realtà è estremamente poetica e marcata da ritmi molto forti che bisogna riprodurre in inglese.

In effetti, quando si traduce bisogna cercare di scrivere il libro come se l’autore l’avesse scritto in inglese, e questo significa rispettare le regole grammaticali e linguistiche della lingua di arrivo, cercando però di riprodurre il ritmo della scrittura di partenza, reinventandolo.

Ci sono poi autori come Michele Mari che ha scritto libri come Verderame pieni di giochi di parole e di dialetto, un dialetto non parlato ma letterario, che l’autore ha creato prendendo spunto dalla letteratura del Settecento e dell’Ottocento.

Per tradurre questa lingua fantastica e letteraria, ho creato anche io un dialetto che era un po’ britannico e irlandese, facendo un pastiche che aveva poco o niente di americano. Si pensa spesso che il dialetto venga usato a fini realistici, come se si trattasse di un’operazione di tipo sociale, ma nella letteratura italiana il dialetto, soprattutto da Gadda in avanti, è stato anche usato in senso creativo, modernista.

Nel caso di Verderame quindi ho dovuto fare scelte molto personali. Qualsiasi traduttore traducendo questo libro avrebbe creato un libro completamente diverso da quello di un altro traduttore.

 

 

Hai pensato di ricorrere alle note per tradurre Verderame?

Non ho voluto usare le note: quando c’erano giochi di parole ho cercato di ricrearli in inglese. Ad esempio, ho ricreato un anagramma molto simile all’originale. Non ho usato note perché non volevo mettere un muro tra la trama, i giochi linguistici, e il lettore. Ma non succede sempre così. Per Nei mari estremi di Lalla Romano abbiamo deciso con l’editore di mettere delle note alla fine del testo, perché ci sono tanti riferimenti alla sua storia, alla sua vita, alle sue opere, a diverse figure letterarie del Novecento italiano.  È un libro così essenziale, così poetico, che abbiamo deciso di non mettere dei numerini o dei simboli che interrompano la lettura: le note ci sono, ma sono solo alla fine.

A volte secondo me, infatti, le note possono essere un ostacolo per il lettore: ad esempio, io penso che in Verderame la cosa più importante non sia cogliere il significato preciso di ogni singola parola ma piuttosto percepire l’espressività del personaggio. E sono del parere che anche per le questioni di contesto a volte non è necessario capire tutto.

 

 

Hai dovuto confrontarti con l’autore per tradurre i giochi di parole di Verderame?

Ho mandato un elenco dei giochi di parole che avevo ricreato in inglese e l’autore lo ha approvato. Per la traduzione del dialetto, poi, si è fidato. Ad ogni modo sarebbe stato difficile per me tradurre questo libro senza avere il confronto e l’approvazione dell’autore.

 

 

I titoli delle tue traduzioni sono di solito concordati con l’editore?

Per ora i titoli che ho proposto sono quasi sempre stati approvati dall’editore, magari in seguito ad alcune discussioni o all’elaborazione di seconde proposte. Quello che mi piace di più è la traduzione del titolo di Troppi paradisi (Einaudi, 2006) di Walter Siti, Paradise Overload. La traduzione letterale, “too many paradises” non suona molto naturale, mentre “overload” dà un senso molto mediatico che rispecchia l’atmosfera del libro. Suona anche un po’ come Paradise Lost di Milton.

 

 

È difficile essere un traduttore dall’italiano all’inglese?

So che in Italia la situazione economica dei traduttori è piuttosto drammatica. Per noi traduttori dall’italiano all’inglese invece c’è pochissimo lavoro. Relativamente ad altre lingue, i libri tradotti dall’italiano sembrano tanti, ma obiettivamente sono comunque pochi. Io ho cercato di puntare su autori che amavo, con l’idea di tradurre più opere, anche perché è sempre difficile iniziare da capo e proporre un autore nuovo. E anche grazie a questo mi sono trovato a lavorare su scrittori che sono tra i miei preferiti in assoluto.

Inoltre, ho spesso usufruito di grant, borse e finanziamenti per i traduttori, anche nelle fasi iniziali della mia carriera. Per esempio, Tetto Murato ha vinto un Pen Grant e per tradurre Troppi paradisi ho vinto un NEA (National Endowment for the Arts) Fellowship. È stato quindi più facile trovare un editore per questi libri.

 

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