Ricerca avanzata nel catalogo dei libri di New Italian Books

Skip to content Skip to footer
14 Settembre 2022

“La traduzione è un lavoro artigianale”. Tradurre le discipline umanistiche (ma non solo)
Intervista a Marilène Raiola

Autore:
Thea Rimini, Université de Mons

Tra le più importanti traduttrici di filosofi italiani contemporanei e di mistici medievali (tra cui Santa Caterina da Siena), Marilène Raiola ha fatto della traduzione delle discipline umanistiche la sua specializzazione. È riuscita così a coniugare la passione per la filosofia con il gusto per la trasmissione del sapere.

 

Lei ha ormai una reputazione consolidata nella traduzione che potremmo definire “teorica”. Ci può raccontare com’è iniziata la sua carriera di traduttrice “specialistica”? 

Ho studiato filosofia, una disciplina che mi ha sempre appassionato. Avevo una vera vocazione per l’insegnamento e sognavo di diventare un’insegnante. Mi stavo preparando per il concorso quando le circostanze della vita mi hanno portato a lasciare la Francia per andare a vivere in Canada. Per otto anni non ho insegnato filosofia, ma francese, a persone di lingua inglese in un paesino dell’Ontario. Durante questi anni di esilio, lontano dalla Francia, dall’Italia, e dalla filosofia, non ho mai smesso di sperare di esercitare un giorno una professione che fosse più consona alla mia formazione. 

Pur essendo bilingue – mio padre era italiano –, ho pensato per molto tempo di aver messo da parte la mia “italianità”, che invece curiosamente è riemersa proprio durante il soggiorno in Canada. Lì mi sentivo spesso più italiana che francese, come se avvertissi l’importanza delle mie radici in modo tanto più violento quanto più ero lontana. È in questo contesto che ha cominciato a farsi strada l’idea di diventare traduttrice. Sapevo che, senza esperienza e senza contatti con il mondo editoriale, avere un contratto di traduzione non sarebbe stato facile. Ho pensato allora di presentare agli editori francesi la traduzione integrale di un testo per dimostrare le mie capacità. Così, un anno prima di lasciare definitivamente il Canada, ho trascorso diversi mesi a tradurre Icone della legge (Icônes de la loi), un saggio del filosofo Massimo Cacciari che non era ancora stato tradotto in Francia.

 

Perché ha scelto di tradurre proprio questo libro e quest’autore?

Mi avevano colpito la cultura vastissima dell’autore, il suo modo di mettere insieme discipline diverse per affrontare un argomento, il suo linguaggio – punteggiato di termini greci e latini – a volte poetico e allusivo, a volte molto astratto e concettuale, che contrastava con lo stile accademico delle opere di filosofia in francese che avevo letto fino a quel momento. Mi era sembrato quindi interessante cercare di esportare in Francia questo modo di scrivere di filosofia.  

 

E poi com’è finita? È riuscita a farlo pubblicare?

Sì, grazie a una serie di coincidenze fortunate. Quando tornai a Parigi con la mia traduzione, scoprii che «Le Magazine Littéraire» aveva appena pubblicato un numero speciale sui filosofi italiani, dedicando la doppia pagina centrale a Massimo Cacciari che veniva presentato come uno dei filosofi italiani più interessanti della sua generazione. Ma non è tutto… Il primo editore a cui ho proposto la mia traduzione, Christian Bourgois, si è dimostrato subito entusiasta perché aveva appena acquistato i diritti di un altro libro di Cacciari, L’Angelo necessario. In breve, nel giro di pochi mesi, ho firmato due contratti con una delle case editrici più prestigiose di Parigi. All’epoca Cacciari non era ancora sindaco di Venezia, insegnava estetica all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia e, poiché non esisteva ancora Internet, non sapevo molto di lui. Non sapevo che in Italia fosse una star, ammirato dagli intellettuali per il carisma, la cultura enciclopedica, la conoscenza della mitologia e delle religioni. Così, dopo essere diventata la sua traduttrice ufficiale, molti editori francesi e autori italiani mi hanno contattata: pensavano che fossi particolarmente dotata dato che ero riuscita ad affrontare un filosofo considerato “difficile”, addirittura “oscuro”, come Cacciari. Ammetto anche di aver beneficiato della pubblicità dello stesso Cacciari che non perdeva occasione per elogiarmi davanti ai suoi colleghi che si sono così rivolti a me per farsi tradurre un libro o un articolo (in quegli anni erano in voga le riviste e dal 1989 al 2000 ho tradotto più di cinquanta articoli accademici). Sono stata insomma molto fortunata. Potrei raccontare molte altre storie del genere per dimostrare come una carriera di successo, al di là delle competenze, sia spesso anche una questione di incontri e di fortuna. 

 

E come è arrivata a tradurre Caterina da Siena (Les Lettres, Parigi, Les Éditions du Cerf, 2012)?

L’ex direttore della casa editrice Cerf, il frate domenicano Eric de Clermont-Tonnerre, specialista di Caterina da Siena, aveva sentito parlare delle mie traduzioni di Giorgio Agamben e, dato che Caterina da Siena era una mistica particolarmente “speculativa”, mi chiese di tradurre il suo epistolario, un’opera monumentale: sette volumi, tremila pagine in tutto… Caterina da Siena è stata infatti la prima donna a fregiarsi del titolo di dottore della Chiesa, titolo che dimostra l’importanza dei suoi scritti e del suo pensiero molto elaborato e rigoroso. Era quindi essenziale cercare di rendere al meglio non solo la bellezza del suo linguaggio, ma anche le articolazioni logiche dei suoi ragionamenti. Inoltre, nei suoi testi abbondano i connettivi logici e una delle difficoltà è consistita proprio nel cercare di eliminarli il più possibile in francese, pur restituendo la progressione del pensiero. Questa traduzione, che sapevo essere importante per la comunità domenicana, mi ha insegnato molto: entrare nell’universo mentale di un santo è stata un’esperienza emozionante.

 

Lei però non si limita a tradurre solo filosofia o saggistica…

Sì, in effetti a partire dagli anni 2000 ho iniziato a tradurre letteratura. Non avrei mai osato farlo prima. La dimensione creativa della traduzione letteraria mi terrorizzava. Ma dopo vent’anni di esperienza nel campo delle discipline umanistiche, mi sono decisa a tradurre romanzi, soprattutto perché anche i filosofi italiani, come ho già detto, hanno uno stile poetico, letterario.  

 

Qual è secondo Lei la differenza tra la traduzione delle discipline umanistiche e quella letteraria?

Tradurre saggi o libri di filosofia richiede una grande quantità di letture e di documentazione. Quando, per esempio, ho tradotto il Dante di Enrico Malato (Dante, Les Belles Lettres, 2017), ho dovuto leggere molti commentatori per rimanere il più vicino possibile alla terminologia usata dai dantisti francesi e rendere conto dei dibattiti filologici relativi ad alcuni passi della Divina Commedia. Che si tratti di una traduzione letteraria o specialistica, il problema è sempre lo stesso: la fedeltà al testo, alla voce dell’autore. Tuttavia, mi sembra che uno dei requisiti più importanti, di cui non sempre si tiene sufficientemente conto quando si inizia a svolgere questa professione, sia la comprensibilità del testo. Quando si traduce un testo teorico, bisogna chiedersi costantemente se ciò che si è appena tradotto sia chiaro, comprensibile per un lettore francese, o se una frase particolarmente contorta o oscura non possa essere semplificata o chiarita. A volte bisogna avere il coraggio di discostarsi notevolmente dal testo originale, possibilmente con il consenso dell’autore. Quello che sto dicendo può sembrare ovvio, ma “osare” allontanarsi dal testo richiede una certa sicurezza, molta esperienza e una perfetta padronanza degli argomenti trattati nell’opera che si sta traducendo. È una capacità che si acquisisce soprattutto grazie ai suggerimenti e alle osservazioni che ci vengono regolarmente fatti dai correttori o dagli editori.

 

Di solito parla con gli autori delle difficoltà che incontra nel tradurre i loro testi? 

Ho sempre lavorato a stretto contatto con gli autori. So quanto sia importante il loro lavoro, quanto tempo ci abbiano dedicato, e cerco di essere all’altezza della loro fiducia mostrandomi scrupolosa e sottoponendogli tutte le frasi o i passaggi che “resistono” alla traduzione. Ma uno degli aspetti più sorprendenti dei miei scambi con gli autori è che raramente gli chiedo di illuminarmi su un passo che tratta un argomento eccessivamente complesso o tecnico. In generale, le mie conoscenze e il lavoro di documentazione sono sufficienti per approfondire qualsiasi argomento (il che spiega perché sono riuscita a tradurre testi di musicologia, psicologia o scienza). In realtà, la maggior parte delle volte gli sottopongo delle frasi ambigue o confuse che sono poco comprensibili. Vorrei aggiungere anche che la versione originale di un testo può talvolta soffrire di una mancanza di “cura editoriale”, il che complica notevolmente il lavoro del traduttore. Il testo tradotto, invece, viene solitamente letto con grande attenzione dal team editoriale che si occupa della pubblicazione.

 

Torniamo un attimo alla traduzione letteraria…

La maggior parte degli studenti di materie umanistiche della mia generazione era appassionata di teoria e astrazione.  Tendevamo a privilegiare il “contenuto” rispetto alla “forma”, a contrapporre letteratura e filosofia, nonostante i pensatori che ci affascinavano, come Gilles Deleuze, Jacques Derrida, Michel Foucault o Michel Serre, cercassero di creare un ponte tra queste due discipline.  Devo ammettere che per molto tempo ho avuto questo tipo di preconcetto, ma per fortuna poi ho cambiato radicalmente idea. Trovo che la traduzione letteraria sia un esercizio molto vivo e stimolante, penso che debba chiamare in causa altre aree del cervello rispetto a quelle attivate dalla traduzione di un testo teorico. In effetti, quando si traduce un romanzo, spesso bisogna immaginare le scene e mettersi nei panni dei personaggi, mentre tradurre un’opera teorica costringe a un’astrazione costante che, a lungo andare, si rivela faticosa.

Anche per la traduzione letteraria a volte mi piace rischiare e presento autori sconosciuti in Francia. Negli ultimi anni ho proposto alle Éditions de la Martinière un racconto allegorico molto originale di Paola Masino: Naissance et mort de la fée du foyer (Nascita e morte della massaia, 1938-1939) e sto lavorando a un secondo libro di questa autrice (Album di vestiti). Compagna di Massimo Bontempelli e intellettuale d’avanguardia, Paola Masino con una narrazione modernissima ed esplosiva racconta la follia di una donna costretta a occuparsi della casa. Un tema e uno stile che valsero alla sua massaia la censura durante il fascismo. Come dimostra questo libro, mi piacciono i testi innovativi, sorprendenti da un punto di vista formale, che si avventurano fuori dai sentieri battuti, il che è probabilmente legato alla mia formazione filosofica iniziale.

 

Le capita di rimpiangere di non aver fatto l’insegnante di filosofia?

No, mai. La traduzione è un altro modo di trasmettere idee e conoscenze e, nel corso della mia carriera, sono cambiata molto. Sono diventata gelosa della mia solitudine e ho una crescente sete di conoscenza. La conoscenza a cui accedo attraverso la traduzione è a volte molto sottile, difficile da comunicare, tocca le corde più intime. Mi sembra che tradurre mi permetta di comprendere meglio i miei limiti, i limiti del mio universo culturale, e di andare oltre, dandomi la possibilità di scoprire capacità insospettate. Quando traduco un libro filosofico, accedo al significato attraverso i cambiamenti che impone il lavoro sulla lingua e in questo modo non immagazzino più semplicemente delle conoscenze, ma le “incorporo”, ne sono, per così dire, plasmata e trasformata. 

 

Lei è traduttrice, ma ha anche insegnato presso il Centre européen de traduction littéraire (CETL). Pensa che la traduzione si possa insegnare?

Mi è piaciuto molto insegnare al CETL. Lì ho tenuto dei laboratori di traduzione. Il compito del traduttore è quello di inviare due o tre fogli della versione originale di un libro che ha già tradotto a un piccolo gruppo di aspiranti traduttori, in modo che possano tradurlo a loro volta a casa. Durante il laboratorio, il traduttore invita gli studenti a leggere la loro traduzione, spiegando gli errori e giustificando le scelte traduttive. Ritengo che questi workshop siano molto formativi per gli studenti e particolarmente gratificanti per il traduttore che, confrontandosi con dei principianti, si rende conto di possedere un vero e proprio know-how che ha acquisito faticosamente giorno dopo giorno.  

 

Su cosa sta lavorando attualmente?

Attualmente sto completando la traduzione degli Écrits di Luciano Berio per la casa editrice Philharmonie de Paris: un libro di novecento pagine, con un’introduzione di Umberto Eco, che era suo amico. Pioniere della musica elettroacustica, Berio è stato anche uno dei compositori più colti della sua generazione; i suoi testi trattano un’infinità di argomenti diversi: dai quadri di Paul Klee all’inaugurazione del Cinerama nel 1952 a New York. Per tradurli ho dovuto destreggiarmi con il lessico della musica elettroacustica. Ma una delle difficoltà maggiori è che il libro accoglie tutte le conferenze che Berio ha tenuto (a volte in inglese) nel corso della sua vita e tutti gli articoli che ha scritto. Il linguaggio usato durante una conferenza è meno ricercato di quello usato in un articolo destinato alla pubblicazione e, inoltre, la scrittura del giovane Berio è molto più “vaga” e allusiva di quella del Berio maturo. Poiché i suoi primi articoli sono, per così dire, molto impressionistici, alcuni sviluppi polemici o ironici sono talvolta troppo allusivi perché un lettore contemporaneo possa comprenderli. È come se Berio, a quell’epoca, fosse totalmente immerso nel suo mondo e si rivolgesse solo a un pubblico selezionato o ai suoi coetanei. Ho dovuto quindi trovare delle soluzioni per cercare di rendere il suo discorso più accessibile al lettore francese di oggi ed evitare un divario stilistico eccessivo tra le conferenze, i primi testi e gli scritti della maturità.

 

Prima di lasciarci, potrebbe darci la sua definizione di “traduzione”?

La traduzione è un lavoro artigianale, sono orgogliosa di considerarmi un’artigiana, cioè una persona che lima e perfeziona continuamente ciò che scrive e che sa di doversi sottoporre sempre alla “prova del fuoco”, facendo sforzi inauditi per ammorbidire la materia viva che ha tra le mani, nella speranza che raggiunga la perfezione sognata.

© 2020 NEW ITALIAN BOOKS  redazione@newitalianbooks.it