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5 Febbraio 2021

«Ogni traduzione è una nuova traduzione»: intervista a Nathalie Bauer

Autore:
Thea Rimini

Seduta a un’antica scrivania di legno, con una serie di raffinate litografie alle spalle, una signora elegante risponde affabile e pacata alle nostre domande. È Nathalie Bauer, traduttrice tra le più note dall’italiano al francese, con più di centocinquanta lavori all’attivo. Una passione, quella per la lingua italiana, nata a quindici anni e coltivata da autodidatta attraverso un libretto, L’italiano in 90 lezioni; e un lavoro iniziato per caso, in tempi più facili, quando ancora si poteva fare della traduzione letteraria la propria unica professione.

La prima domanda non può che riguardare la sua traduzione più recente, il premio Strega di Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo, che è diventato un caso letterario anche in Francia.

Com’è nata la traduzione di M.?

Quando mi hanno proposto di tradurre M., confesso di essere rimasta molto sorpresa. È un libro che ha fatto fatica a trovare un editore in Francia. I francesi conoscono molto poco la storia italiana e soprattutto il periodo di cui tratta il libro. L’immagine che hanno di Mussolini è quella di un personaggio grottesco, quasi comico, cosa che ovviamente non corrisponde alla verità. Non avrei quindi mai pensato che il libro riscuotesse tutto questo successo di critica e di vendite in Francia. Sono rimasta sbalordita.

Allora come spiega questo successo insperato?

Credo che la chiave si trovi nella forma che Scurati ha dato al suo libro. Non è una biografia tradizionale, ma una docu-fiction, in cui la forma romanzesca è accompagnata da una serie di documenti che alla fine di ogni capitolo attestano quanto è stato raccontato. È un’idea accattivante che ha affascinato il lettore francofono, anche quello ignaro della storia italiana.

Venendo alla traduzione in sé, quali sono state le maggiori sfide che ha dovuto affrontare?

La difficoltà maggiore non è stata tanto di ordine storico. Certo, ho dovuto verificare tutto, ma ho una formazione da storica e avevo già lavorato su questo periodo quando ho tradotto Canale Mussolini di Pennacchi. Il problema più grande è stato lo stile. A prima vista, non ci si rende conto che la lingua italiana è molto “elastica”, mentre quella francese è molto più rigida. Per districarsi tra le due, il traduttore deve utilizzare dei trucchi che si apprendono con l’esperienza. Inoltre, sentivo una certa “pressione”, perché sapevo di stare traducendo un libro che aveva fatto molto discutere in Italia, dividendo la critica e i lettori. Non avevo mai tradotto niente di Scurati e lui in quel periodo era impegnato a scrivere il secondo volume della trilogia su Mussolini, quindi era difficile avere dei chiarimenti dall’autore. Alla fine, però, credo di essere riuscita a restituire la sua voce, tanto che ora sto traducendo il secondo tomo.

Conoscendo bene il francese, Scurati ha voluto controllare la traduzione?

No, e questo in realtà è un bene per il traduttore. Spesso gli autori, nelle traduzioni, vanno alla ricerca del loro testo e hanno l’impressione di non trovarlo, perché è formulato in modo diverso. Anche se si resta molto vicini all’originale, il modo di rendere le frasi, le parole, da una lingua all’altra sarà sempre differente, perché la sintassi è diversa. Per il traduttore, questo è imbarazzante e normale allo stesso tempo. Io per prima, che sono anche scrittrice, quando il mio libro è stato tradotto in italiano non ho potuto evitare di fare un confronto. È inevitabile, insomma, da scrittore, avvertire questa forma di “ansia”, di “inquietudine” nei confronti del proprio testo quando viene tradotto.

Ha detto che M. le è stato proposto, ma altre volte immagino sia Lei a proporre un libro a un editore. Ci può spiegare un po’ questo meccanismo?

Ci sono editori che mi propongono dei libri da tradurre, ma lavoro anche con agenzie letterarie italiane e con case editrici italiane che mi inviano delle opere e anche con autori italiani che mi mandano direttamente i loro testi. Se un libro mi colpisce, allora cerco di trovargli un editore in Francia. Certo, all’inizio era diverso.

Ci può parlare un po’ di quest’inizio? Com’è nato il suo lavoro nel campo della traduzione?

In realtà, è cominciato tutto per caso. Stavo facendo una tesi di storia medievale, sulla corte estense di Ferrara e a poco a poco mi sono interessata alla letteratura italiana. Nel frattempo, mi è stato proposto di essere lettrice di libri italiani per Plon. Era il 1988 e dopo qualche anno mi hanno chiesto di fare delle traduzioni. Mi sono subita resa conto che era un lavoro ben più adatto a me, alla mia indole riservata, di quanto lo potesse essere la carriera universitaria.

Ha tradotto autori del passato, come Levi o la Ginzburg, e autori contemporanei. C’è un approccio traduttivo diverso quando si deve tradurre un classico o un autore vivente?

Per me ogni traduzione è una nuova traduzione. Quando comincio a tradurre un libro ho l’impressione di non aver mai tradotto prima. Non ci si può affidare solo all’esperienza che si è accumulata negli anni, anche se è vero che più si traduce meglio si traduce. Perché ogni libro pone delle difficoltà sempre nuove, lancia delle sfide diverse. Mi piace molto tradurre i classici e ho avuto la fortuna di tradurre De Roberto, Levi, Arpino, la Ginzburg, e Soldati. Più gli autori hanno esperienza, più è facile (e piacevole) tradurli. Con i contemporanei, beh, ogni autore è diverso dall’altro, ogni libro è diverso, e non mancano le difficoltà. Ma il buon traduttore deve essere in grado di tradurre tutto, dai classici ai libri di genere.

Lei ha tradotto scrittori e scrittrici. C’è una differenza nel tradurre, Lei donna, un uomo o una donna? Esiste, come sostengono alcuni, una «traduction femme»?

Per me la scrittura non ha sesso, non c’è una scrittura femminile e una scrittura maschile, c’è solo una buona o una cattiva scrittura. E una buona o cattiva traduzione.

Qual è il segreto di una buona traduzione? Meschonnic diceva che quello che fa la differenza tra le traduzioni non è l’interpretazione, ma il ritmo della scrittura. È d’accordo?

Per me, una buona traduzione è quando il lettore ha l’impressione che il libro sia stato scritto nella sua lingua, quando non si rende conto del lavoro del traduttore. Poi, ogni autore ha le sue esigenze. Ad esempio, Marcello Fois, di cui ho tradotto molti libri, mi ha sempre chiesto di preservare il ritmo, i colori della sua scrittura anche a scapito del senso. Penso che abbia ragione. La lingua deve essere fluida e riprodurre tutte le particolarità che ha in italiano. Certo, ciò non significa che non si debba essere fedeli al testo, ma bisogna mantenere questa sorta di piccolo “margine” che permetta alla traduzione di offrire un equivalente dell’originale.

È sempre una questione di difficile equilibrio tra il testo fonte e la sua traduzione…

Più che di equilibrio, si tratta di “sensibilità” per la lingua. Quando si parlano due lingue, ci si rende subito conto che non si può dire la stessa cosa nello stesso modo. Ad esempio, in questo momento sto traducendo un giallo che si svolge a Napoli e mi sono resa conto che se nei dialoghi rimanessi troppo vicina all’originale, in francese suonerebbero falsi, inverosimili. Bisogna riformularli per renderli credibili in un’altra lingua. È un po’ come un’equazione matematica: si deve ottenere lo stesso risultato, anche se con modi diversi.

In questo romanzo napoletano che sta traducendo è usato il dialetto?

No, in questo no, ma in generale trovo stimolante tradurre il dialetto.

E come lo traduce? Quella del dialetto è sicuramente una delle più grandi sfide per il traduttore di letteratura italiana.

Non c’è una soluzione unica. Ogni traduttore ha il proprio modo di affrontare il dialetto. In Francia, non abbiamo la stessa situazione dell’Italia. In alcune regioni si parla ancora il dialetto, ma è circoscritto a determinate classi sociali. Da voi, invece, è ancora molto vivo. Bisogna allora trovare un modo per suscitare nel lettore francese una sorta di sorpresa. Quando un italiano legge delle espressioni in dialetto, anche se non le capisce, ne intuisce comunque il senso. Nella traduzione, bisogna riprodurre quest’effetto di sorpresa. Ho da poco tradotto la seconda parte di Canale Mussolini dove ci sono tre dialetti diversi. C’è il dialetto della zona di Ferrara, di dove sono originari i personaggi, quello laziale, pontino, dove si svolge la vicenda e un po’ di napoletano. Come rendere questa varietà? Per quello più presente, ho inventato delle parole, ne ho allungate alcune, ne ho accorciate altre. Ho cercato insomma di creare una lingua che fosse allo stesso tempo strana, ma comprensibile. Per il dialetto pontino, invece, ho inserito delle interiezioni, come dei tic linguistici. Infine, per il napoletano, ho aggiunto delle terminazioni differenti. Cerco sempre di privilegiare il lato “poetico” del dialetto. La scelta traduttiva che invece non faccio mai è quella di rendere il vostro dialetto con uno francese, perché c’è tutto un aspetto socioculturale che è diverso e avrei paura di introdurre in un contesto italiano degli elementi estranei.

Le risorse che oggi sono disponibili in rete hanno facilitato il lavoro del traduttore letterario?

Internet ha agevolato in modo impressionante la nostra professione. Soprattutto per quanto riguarda la reperibilità delle citazioni. Oggi, ad esempio, posso trovare facilmente un verso della Divina Commedia senza dover rileggere tutta l’opera. Anche i dizionari on line dei dialetti hanno velocizzato il mio lavoro, perché prima ero costretta a consultare continuamente l’autore per avere dei chiarimenti.

Lei prima ha menzionato il suo lavoro di scrittrice. Nathalie Bauer è anche autrice di cinque romanzi e uno, «Ragazzi di belle speranze», è stato tradotto in italiano. La traduzione influenza in qualche modo la sua scrittura?

La traduzione e la scrittura sono due mestieri differenti. Il traduttore deve sempre rimanere nell’ombra, si deve annullare dietro l’autore, non si deve sentire la sua presenza.

L’invisibilità del traduttore, insomma…

Beh, sì. Nella scrittura invece bisogna creare tutto, bisogna partire da zero e costruirsi la propria voce. Quello che però mi aiuta, tra un romanzo e l’altro, è proprio il mio lavoro di traduttore. È come, in un certo senso, se continuassi a scrivere attraverso la scrittura degli altri. La traduzione diventa allora una sorta di palestra per la scrittura. Non a caso, quando a Stefan Zweig veniva chiesto che cosa si dovesse fare per diventare scrittore, rispondeva che bisognava tradurre, perché traducendo si apprendono dei diversi modi di esprimersi, e questo dà un altro respiro alla propria scrittura.

In questo momento sta scrivendo qualcosa?

Ho cominciato un romanzo da due anni. L’anno scorso ho avuto tantissime traduzioni da fare per il Salon du livre che nel 2021 avrebbe dovuto avere come paese ospite l’Italia (è stato invece recentemente deciso di rimandare la partecipazione italiana al 2022). Quest’anno forse avrò più tempo…

Segue un metodo preciso nel tradurre?

Il lavoro di traduzione è molto lungo. Quando si comincia, si pensa di avere tanto tempo davanti a sé, ma poi si deve continuamente rileggere il testo, anche una cinquantina di volte, e a un certo momento devo fissare un determinato numero di pagine al giorno da tradurre. Ma la traduzione non è una scienza esatta: ci sono giorni in cui ti è più facile e altri in cui lo è meno. Quello che trovo affascinante in questo lavoro è proprio il fatto che ci sia sempre una certa dose di incertezza. Non si sa mai quale problema verrà fuori, con quali difficoltà ci dovremo confrontare. Una sfida continua, e imprevedibile.

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