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30 Giugno 2020

Corpo a corpo con l’italiano: In altre parole di Jhumpa Lahiri

Autore:
Giovanni Pillonca

Definita dal critico del “Financial Times” come “the most influential writer of fiction in America”, Jhumpa Lahiri ha colto di sorpresa i suoi lettori anglofoni quando ha annunciato di voler abbandonare l’inglese per concentrarsi sulla scrittura narrativa in italiano: una decisione nata dal desiderio di dedicarsi pienamente a una lingua e a un Paese molto frequentati e amati nel corso degli ultimi due decenni.
Caso interessantissimo per chi si occupa di processi di apprendimento linguistico, Lahiri ha conservato nel profondo il piacere legato alla consapevolezza di muoversi tra universi culturali distinti: la madrelingua parlata tra le mura domestiche e l’inglese della formazione scolastica, che le conferì la prima forma di autonomia dalla famiglia, regalandole una libertà tangibile e ambivalente che avrebbe indagato in seguito. Quello stesso sentimento, mutatis mutandis, sta alla base del progetto di arrivare a padroneggiare l’italiano fino al punto di utilizzarlo come sua nuova lingua d’arte.
È importante sottolineare che l’autrice, al momento del cambio di casacca, si era già imposta all’attenzione di lettori e critici per la qualità della sua scrittura con opere di assoluto valore. Due raccolte di racconti – The Interpreter of Maladies (1999), che le vale il Premio Pulitzer e Unaccustomed Earth (2008) – e due romanzi – The Namesake (2003) e The Lowland (2013). Una produzione, soprattutto le raccolte di racconti, che ottengono numerosi e prestigiosi riconoscimenti tra i quali, oltre al Pulitzer, l’O.Henry Prize, il Pen/Hemingway Award e il Pen/Malamud Award. È di sicuro una benedizione che questa sua maestria nel campo della forma breve sia stata posta al servizio di un progetto quale l’antologia di quaranta racconti del Novecento italiano contenuta in The Penguin Book of Italian Short Stories (2019), ora disponibile anche in italiano come Racconti italiani del Novecento (Guanda).

Due sono i libri pubblicati in italiano: In altre parole (Guanda, 2016) e Dove mi trovo (Guanda, 2018). Il primo, su cui ci soffermiamo, costituisce un diario delle varie fasi del corpo a corpo della scrittrice con la sua nuova lingua d’adozione, un’interessante e originale fenomenologia del processo dì apprendimento da parte di una specialissima apprendista con un altrettanto specialissimo progetto in mente. Per lei, le quattro abilità canoniche dell’apprendimento non sono tutte uguali. Lettura e soprattutto scrittura occupano il primo piano e non per ragioni banalmente comunicative, ma per fini alti e inusuali, come assorbire il più possibile del canone letterario della nuova lingua con lo scopo di potervisi esprimere da scrittrice. Si tratta di una scommessa da far tremare vene e polsi.
Nel libro, che ha in esergo una citazione da Tabucchi, anche lui scrittore che finisce per scrivere in una lingua altra, il portoghese, frequentata e amata, Lahiri ritorna sulle ragioni che l’hanno portata a imbarcarsi in questa avventura allorché, studentessa di Ph. D. a Firenze, inoltrandosi nello studio dell’architettura del Rinascimento, inizia a scoprire l’italiano. Descrive i dubbi, le paure, in particolare quella di lasciare la lingua dominante, l’inglese, per lanciarsi senza più salvagente in una scommessa esistenziale e artistica che pochi sono stati tentati di compiere in forme così radicali. Anche se lei stessa non manca di sottolineare che anche per gran parte degli scrittori italiani del Novecento la lingua usata era comunque una lingua acquisita.

Il libro racconta questo rapporto, o meglio questo corteggiamento (si parla di innamoramento) inusuale di una lingua da parte di una scrittrice che cerca una nuova libertà, nuovi stimoli creativi. Non tralascia, la scrittrice, la lacerazione provocata dall’abbandono della lingua inglese, dal suo farsi pellegrina linguistica, entrando così in un territorio inesplorato, quale esule volontaria. La ricerca è un abisso vertiginoso, ma fecondo.
Il libro dà conto dei primi tentativi di scrittura. Al principio, è quasi come scrivere con la mano sinistra. Ma è l’unico modo di sentirsi presente nel luogo dove ha scelto di vivere. Scrivendo nella nuova lingua, Lahiri riscopre le motivazioni profonde alla base della sua professione e il piacere provato sin da bambina nelle prime prove di scrittura nella prima lingua extra moenia.
Dotata della capacità di osservazione dei grandi scrittori, Lahiri analizza luoghi, persone, situazioni, ritornando a essere la stessa implacabile descrittrice di sentimenti, relazioni, debolezze, paure, dubbi quale si era rivelata nelle opere in inglese. Dubbi e frustrazioni controbilanciate dalla stupefacente piacere, a più riprese confessato, provocato dall’immersione in questo nuovo liquido amniotico (le metafore acquatiche e riproduttive sono ricorrenti) in cui si dispiega di nuovo la sua vocazione di scrittrice.
Il libro si chiude con un capitolo straordinario, un brevissimo racconto, “Penombra”, che è una sorta di epifania, secondo la terminologia di un altro grande scrittore che confessava, anche lui, di scrivere in una lingua acquisita, l’inglese. Un racconto che corona come meglio non si potrebbe tutto l’iter affascinante seppur non scevro di fatiche e frustrazioni, che Lahiri descrive senza infingimenti, mirante ad acquisire quella competenza necessaria a scrivere in una nuova lingua. Vi si riconosce l’autrice padrona dei propri mezzi in lingua inglese, rimpianta (e comprensibilmente) da molti, che con questa nuova prova ribadisce la genuina e insopprimibile necessità che la muove e che è alla base della sua grandezza di scrittrice.

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