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5 Febbraio 2021

Intervista a Alon Altaras, il traduttore di Elena Ferrante in ebraico.

Autore:
A cura di Elena Loewenthal, scrittrice, traduttrice e direttrice della Fondazione Circolo dei Lettori di Torino.

«Raramente uno scrittore che non vuole apparire, che decide di restare nell’ombra, ha contribuito così tanto alla fama del suo traduttore. Elena Ferrante mi ha cambiato la vita», racconta in tono pacato eppure entusiasta Alon Altaras, classe 1960, da decenni impegnato nell’appassionante compito di traghettare la letteratura italiana in Israele, in ebraico: la lingua plurimillenaria del profeta Isaia e di Amos Oz, rimasta in fondo sempre la stessa.

Alon Altaras vive oggi fra Venezia e la Toscana, insegna all’Università di Pisa, tiene un blog tanto su “Il Fatto” quanto su “Haaretz”, prestigioso quotidiano israeliano. Nel 2003 ha vinto il Premio per la Traduzione del MIBACT, nel 2006 il Presidente Napolitano lo ha insignito dell’onorificenza di Cavaliere della Repubblica. «Ma il debito maggiore», ci tiene a dire, «ce l’ho con il mio maestro Tullio De Mauro», che lo ha accompagnato lungo il master ma soprattutto avviato a una appassionante carriera di traduttore.

Prima di parlare del caso Ferrante e soprattutto della sua “avventura” nei libri di questa autrice tanto sconosciuta quanto universale facciamo il punto sulla letteratura italiana in Israele, e sulle sue traduzioni.

Lo stato dell’arte è molto buono! La letteratura italiana è tradotta regolarmente, tanto i classici quanto i nuovi autori. Un grande lavoro fu fatto a suo tempo dal compianto Gaio Sciloni – peraltro fra i pochissimi traduttori a poter lavorare in entrambe le direzioni, dall’italiano all’ebraico e viceversa. Da Bassani a Ginzburg a Calvino a Morante, da Gamberale a Starnone, il lettore israeliano può contare su una ricca scelta. C’è da parte di alcune case editrici israeliane, in sostanza, un occhio sempre aperto sul panorama italiano. Ci sono stati anche dei casi interessanti, però, se pensiamo che Se questo è un uomo fu tradotto in ebraico soltanto nel 1989. E molto c’è ancora da fare. Mi riferisco ad esempio a Pasolini, un autore da me molto amato e sul quale sto lavorando in questo periodo con due novelle giovanili uscite postume sotto il titolo Amado mio: sono bellissime. Un altro autore che meriterebbe più attenzione in Israele è il grande Umberto Saba. Sempre in questo periodo, mi sto cimentando con il romanzo Ernesto.

Restando alle mie personali esperienze di traduzione, posso citare Caos calmo di Sandro Veronesi, Canone inverso di Paolo Maurensig, un grandissimo libro, Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso. E poi Antonio Tabucchi, che per me non è stato solo un autore ma soprattutto un grande amico. Ma non c’è soltanto la narrativa. Vorrei ricordare, infatti, il curioso destino che ha subito di recente la raccolta dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci nella mia traduzione in ebraico, che è finita al centro di un dibattito culturale tutto israeliano sull’egemonia intellettuale degli ashkenaziti a spese del “fronte” sefardita. Israele è un paese che ama discutere, azzardare deduzioni improbabili, associare elementi apparentemente inconciliabili.

Ho tradotto anche molta poesia, curato un’antologia bilingue di autori italiani. Anzi, posso dire che tutto cominciò anni fa dalla poesia, quando lavoravo per il master con Tullio De Mauro…

E cominciò la sua avventura con Elena Ferrante, vero?

Esatto! A quell’epoca vivevo a Roma. Anita Raja, la germanista e traduttrice, era amica della mia padrona di casa, che un giorno mi fece avere due romanzi usciti per la collana di e/o di cui si occupava per l’appunto Raja, due romanzi di Elena Ferrante, un’autrice completamente sconosciuta. Erano L’amore molesto, uscito in Italia nel 1992, e I giorni dell’abbandono, comparsi esattamente dieci anni dopo. Io in quel periodo avevo già avviato la mia collaborazione con Menachem Peri, «grande patriarca della letteratura in Israele», come è stato definito. Hasifriyah Hahachadash era allora l’editore guida per i classici contemporanei e non solo, che curava lui. Ma pubblicare Elena Ferrante era davvero un azzardo: un’autrice che aveva dalla sua soltanto due libri, usciti per di più a dieci anni di distanza l’uno dall’altro, e che in Italia non erano certo dei best seller. Una autrice che non si poteva intervistare, di cui non esisteva una sola fotografia… Peri mi disse allora: «È talmente una scommessa che non posso non fidarmi del tuo parere: mi hai convinto!». Decidemmo di far uscire prima il secondo libro, più facile da proporre al pubblico israeliano. E funzionò subito bene. L’azzardo ci aveva dato ragione…

L’avventura prosegue con L’amica geniale. Dacché esistono le top ten degli autori più venduti, in Israele non era mai capitato che un solo nome occupasse per settimane il primo e secondo posto. A Elena Ferrante è successo, con un successo (il bisticcio di parole è inevitabile!) senza precedenti. Ci può raccontare la sua esperienza di traduzione di questa serie? Come è riuscito a far passare in ebraico la misura dialettale di questa storia, il suo essere così radicata in un territorio particolare come Napoli?

Sì. L’amica geniale è stato davvero un successo senza precedenti. Che, come dicevo, mi ha veramente cambiato la vita. Anche la traduzione è stata molto apprezzata. Quanto al dialetto, sapevo a priori che non c’è modo di rendere qualunque dialetto in traduzione. Mentre studiavo con De Mauro, badi bene, mi sono cimentato anche con Eduardo De Filippo… Sta di fatto che anche se nella serie televisiva ci sono voluti i sottotitoli per il pubblico italiano non napoletano, Ferrante non usa mai il dialetto, mai scrive in dialetto. Eppure, i suoi personaggi non parlano quasi mai italiano, a parte lei, la protagonista. Quale accorgimento letterario usa dunque l’autrice? L’inciso «hanno detto in dialetto». Persino Lenù dice a un certo punto: «L’ho minacciato in un dialetto che non sapevo di sapere». Anche in questa sorta di transfert linguistico stanno la forza del racconto e un equilibrio davvero “geniale” fra il livello letterario dell’opera e il suo essere calcata in una realtà così profonda. Per tradurre sono dovuto entrare io stesso nel profondo di questa storia, di questo stile così unico. Si trattava di ascoltare bene la ricercata semplicità di quest’opera invece così complessa. E stare sempre vigili per afferrare i diversi registri del racconto, traducendo. Di fatto ogni personaggio ha il suo linguaggio dialettale che, trasportato sulla pagina, diventa letteratura.

È vero, certo, la napoletanità de L’amica geniale, il confronto con un mondo ignoto e ostico, potevano diventare un ostacolo per il lettore israeliano. Però, a ben guardare, ci sono non poche somiglianze, c’è una familiarità sotto traccia che sta forse nel condividere lo stesso mare Mediterraneo, su sponde diverse ma simili… Il pubblico israeliano ha così avuto l’opportunità per un verso di partire all’esplorazione del mondo di Lenù e Lila, per l’altro di sentirsi un po’ a casa, a Napoli.

E poi, comunque, quando si tratta di bei libri, di grande letteratura, non ci sono proprio confini che tengano!

A me lo stile di Elena Ferrante ricorda molto quello di Natalia Ginzburg. Entrambe hanno una prosa nitida, lucida. Apparentemente semplice. Né l’una né l’altra, se ci pensa, hanno bisogno di usare metafore o similitudini, per dare corpo al loro scrivere. E incantare il lettore.

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