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26 Ottobre 2020

Intervista allo scrittore e traduttore Antony Shugaar

Antony Shugaar, scrittore e traduttore dall’italiano e dal francese, ha tradotto numerosi articoli per la “New York Review of Books” e circa quaranta romanzi per Europa Editions. Tra i titoli da lui tradotti figurano molti vincitori del più importante premio letterario italiano, lo Strega (Edoardo Nesi, Storia della mia gente, 2011; Walter Siti, Resistere non serve a niente, 2013; Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, 2014; Nicola Lagioia, La ferocia, 2015; Edoardo Albinati, La scuola cattolica, 2016). Nel genere noir, oltre ad alcune opere di Gianfranco Carofiglio, ha tradotto libri di autori come Massimo Carlotto, Sandrone Dazieri, Maurizio de Giovanni, Giorgio Faletti, Antonio Manzini e altri. Ha ricevuto due Premi del National Endowment of the Arts. È l’autore della traduzione di due titoli della W. W. Norton Collected Works of Primo Levi, edita nel 2015. La sua traduzione di Cuore cavo di Viola Di Grado è risultata finalista ai Premi per la traduzione in italiano del PEN e dell’American Literary Translators Association. Ha inoltre tradotto serie televisive e film per HBO, Netflix e Amazon.

Nel suo curriculum Lei è definito scrittore e traduttore. Quale peso percentuale hanno avuto ed hanno tuttora queste due attività nella sua vita professionale?

Mi piace scrivere e mi piace tradurre. Ma mi sembra di aver trovato una nicchia particolarmente felice come traduttore di testi letterari. Ho tradotto più di quaranta libri per Europa Editions. Oltre a questi quaranta, ho tradotto almeno altri cento libri nella mia carriera, cui vanno aggiunti vari tipi di lavori, dalle sceneggiature per il cinema e la TV alle campagne pubblicitarie ed ogni altra specie di testi. In particolare, ricordo di aver lavorato con un giornalista di inchiesta sulla vicenda di Giancarlo Parretti, allorché acquistò la MGM negli anni Novanta. Il titolo era “Come un furfante italiano ha depredato la MGM, ha messo in ginocchio il Crédit Lyonnais e ha fatto piangere il Papa”. Quella volta, sì che mi son divertito. Nella mia carriera ho anche scritto centinaia di articoli e un paio di libri. Un altro tipo di divertimento, lo riconosco. In generale, però, con il giornalismo serio rischi di avere problemi finanziari. Io, poi, tendo a scavare troppo nelle mie ricerche. Del resto, credo che anche una buona traduzione richieda ricerche estenuanti.

Come è diventato traduttore? E perché il suo lavoro di traduttore si è rivolto in particolare all’italiano?

Mi piace l’Italia. E tutta l’Europa mediterranea: la Francia, l’Italia e la Spagna. Mi piacciono le lingue. Mio padre ne conosceva sette. Potrei dire che gli sono arrivato vicino se includo nel conto alcune lingue che conosco, ma non parlo: il greco antico e il latino. Ma lasciamo stare le lingue morte. Quand’ero bambino, mio padre mi parlava spesso in italiano e questo mi piaceva molto. Ho visitato l’Italia da ragazzo, con la mia famiglia, e poi mi ci sono trasferito a vent’anni. Una situazione complicata, ma un bel risultato. Festeggiai i miei ventun anni con i miei nuovi datori di lavoro di un’agenzia di traduzioni di Cuneo. Lavoravo come traduttore per cercare di rimanere in Italia. I miei datori di lavoro mi portarono a cena in un piccolo ristorante di Peveragno, se ricordo bene. Mangiammo ravioli, e a un certo punto io decisi di contare il numero di ravioli nel piatto e di moltiplicarli per pi greco. Erano 7 ravioli per 3,1415, ovvero 21,9905 ravioli. C’erano davvero 22 ravioli nel piatto! I miei datori di lavoro mi dissero che la mia era un’americanata e che mi ero semplicemente rovinato il gusto di mangiar ravioli. Tuttavia, credo che avessi indovinato abbastanza la strada, anche se in un modo strano e primitivo. Devi guardare il mondo della lingua cui ti rivolgi come traduttore e osservarlo con occhio critico, misurarlo e stimarne le dimensioni per poi affrontare il pesante lavoro di trasferire il tutto in una lingua diversa, nella lingua “bersaglio”.
Scrisse una volta il grande traduttore Richard Howard, sul tema della “professionalità”, citando Justin O’Brien, professore alla Columbia University: “Nessuno ha mai avuto l’ambizione di diventare un traduttore professionista”. Mi è sempre piaciuta questa citazione. O’Brien ha tradotto Camus e Gide. Quando morì, purtroppo giovane, il direttore del dipartimento di O’Brien disse le seguenti parole su di lui: “Era uno studioso dalla personalità umana. Si era fatto degli amici”. In realtà è un epitaffio molto bello. Ed è una buona descrizione del tipo di avventura che è la traduzione. È un po’ come un film di fantascienza avventuroso. Nessuno vuole mai andare a finire impigliato in un ipercubo quadridimensionale o essere rapito dai marziani. Ma una volta che ti ci trovi, sei costretto a lottare fino in fondo. In un certo senso, la traduzione ti dà la sensazione di infrangere alcune leggi fondamentali della fisica. Prendere un significato dal contesto linguistico in cui è nato e innestarlo in un’altra lingua è strano, è come una forma di contorsionismo. C’è una famosa citazione, in inglese: “Il passato è un altro paese. Lì fanno le cose in modo diverso”. Verissimo. E se consideri che la traduzione è fare un’esperienza – perché un romanzo è esperienza che si è fatta carne – allora stai facendo qualcosa con la traduzione, cioè stai spostando la mente e l’esperienza da una lingua all’altra, e quel qualcosa assomiglia un po’ a un viaggio nel tempo. È trasgressivo e stranamente divertente. E comporta anche un sacco di lavoro. Per fortuna, mi pagano.

Come giudica la situazione attuale dell’editoria americana rispetto al libro italiano? È cambiato qualcosa in questi ultimi anni? Si traduce di più? Di meno? Quali sono le case editrici statunitensi più attente ai nostri autori di oggi? Quali autori vengono prediletti e perché?

Naturalmente, Europa Editions sta facendo un grande lavoro. Oltre Europa Editions, c’è tutta una serie di case editrici. Farrar Straus, Norton, Quercus, Other Press, e la lista potrebbe continuare e infatti…continua. Ma in realtà ciò che va considerato è l’autore. Non sono sicuro che gli editori guardino a un autore come un autore italiano, piuttosto guardano ad esso come un autore e basta. La traduzione, semmai, è solo un ostacolo in più verso la pubblicazione. Ho pensato a lungo che gli editori abbiano un segreto equivalente al giuramento di Ippocrate dei medici, che, come è noto, inizia con le parole: “Per prima cosa, non nuocere.” Il giuramento dell’editore dovrebbe cominciare così: “Per prima cosa, non pubblicare il libro sbagliato.” I libri sono costosi da realizzare, e ci sono più libri di quanti se ne possano pubblicare. Flannery O’Connor una volta disse: “Ovunque vada mi chiedono se penso che l’università soffochi gli scrittori. La mia opinione è che non ne soffocano abbastanza. Ci sono molti best-seller che un buon insegnante avrebbe potuto impedire che venissero scritti”.

Lei ha tradotto classici del Novecento italiano come Primo Levi, ma anche moltissimi opere di autori contemporanei, fra cui il poderoso volume di Edoardo Albinati (1600 pagine), La scuola cattolica, ma anche libri di Walter Siti, Nicola Lagioia, Francesco Piccolo, Edoardo Nesi, Roberto Saviano, Valeria Parrella, Davide Enia, Silvia Avallone, Maurizio de Giovanni, Carmine Abate, Massimo Carlotto, Andrea Molesini, Sandrone Dazieri, Giancarlo De Cataldo, Francesco Pecoraro, Gianrico Carofiglio, Diego De Silva etc. Che cosa pensa della letteratura italiana di questi nostri anni?

È un po’ come chiedere a un pesce che cosa pensa dell’acqua. Io vi nuoto, e mi piace molto, ne ho bisogno per vivere, e in certo modo non so nulla di essa. Non mi propongo di conoscerla, ma di incarnarla.

Quanto è importante per Lei, nel Suo lavoro di traduttore, il rapporto personale con gli autori dei libri che traduce? Durante il lavoro di traduzione, intrattiene con loro una corrispondenza?

Molto meno di quanto si possa credere. Faccio delle domande, ma per fortuna lo scrittore ha messo tutte le informazioni necessarie nelle sue parole. Detto questo, quando entro in corrispondenza con gli autori, spesso scopro quanti errori ho fatto. Nella traduzione c’è un inevitabile margine di perdita. Non si può salvare tutto in una traduzione. Conoscere lo scrittore è conoscere qualcuno che hai tradito, ma che hai anche salvato. È complicato e stressante.

Tra i tanti libri italiani da Lei tradotti, ce n’è stato uno che ha rappresentato per Lei una sfida particolarmente difficile e stimolante?

L’unico libro veramente difficile da tradurre è un libro noioso, prodotto da una mente poco interessante. Si trascorre molto tempo con il libro che si traduce, in pratica si finisce per entrare nella mente di chi scrive e per disporsi ad affrontare un lungo viaggio. Quindi si spera solo di avere qualcosa di buono da leggere durante il viaggio. Mi piace tradurre autori che corrono dei rischi e che deformano il tessuto della realtà con la loro immaginazione. Uno dei tratti distintivi di questo tipo di autori è che la loro scrittura sembra sempre molto più diretta di quanto non sia in realtà. Quando si traduce un libro, si fa davvero i conti con la meccanica delle frasi e dei paragrafi. In un certo senso, è come aggiustare una macchina, smontarla e rimontarla. Beh, con gli scrittori che mi piacciono, è come se ci fosse più di un motore, oppure pistoni che si muovono in direzioni opposte sullo stesso albero motore, o parti che dovrebbero essere fatte di metallo e invece sono ingegnosamente realizzate in seta o bambù.
No, preferisco non fare nomi.

Lei ha una lunga esperienza di traduttore, quasi cinquantennale. E ha anche scritto articoli e saggi sul tema della traduzione. Quali consigli darebbe ai giovani che volessero lanciarsi in questa carriera?

Traducete. Traducete di tutto. Ho imparato una cosa meravigliosa dal mio professore di storia dell’arte a Perugia, l’università per stranieri dove ho studiato molti anni fa (quasi mezzo secolo fa, come Lei mi fa notare). Il professor Pietro Scarpellini ci ha insegnato che quando Michelangelo e Raffaello erano giovani, venivano messi già in tenera età, a cinque o sei anni, a macinare la pittura. Radici, rocce e ogni sorta di ingredienti che venivano usati per fare i pigmenti. Se ne stavano seduti lì a macinare, fino a quando non ottenevano l’esatta tonalità desiderata. In italiano, c’è un detto utile: “Sbagliando si impara”. Si impara facendo cose sbagliate. Non gli permettevano di toccare un pennello fino all’età di dodici anni circa. Traducete cose di ogni tipo. Se volete guadagnarvi da vivere come traduttori, non storcete il naso di fronte a niente. Cercate di fare del vostro meglio. Farete degli errori. Dopo cinquant’anni, ne faccio TANTI di errori. Ma cerco di fare le cose bene. E continuo a imparare dai miei errori, che sono moltissimi.

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