All’ascolto delle voci degli altri. Intervista a Marguerite Pozzoli.
Autore: Thea Rimini (Université de Mons)
Ci può raccontare come è nata questa passione per la letteratura italiana? E le due professioni, quelle di traduttore e funzionario editoriale, sono nate insieme?
In realtà, ho sempre amato tradurre, comprese le versioni di latino al liceo. Poi mi sono ritrovata a fare l’insegnante, ma più per amore della letteratura che della pedagogia in sé stessa. A metà degli anni ’80, ho conosciuto quella che ai tempi era una piccolissima casa editrice, Actes Sud, vicino ad Arles. Un amico mi fece partecipare a un comitato di lettura e il direttore di allora, Hubert Nyssen, mi disse che potevo tornare quando volevo. Con il tempo la casa editrice si è ingrandita e sono cominciati ad arrivare dei testi italiani. Ero io a leggerli grazie alle mie origini italiane e, quando mi piacevano, ne traducevo dei passi. Un giorno è arrivato un libro (La casa nel vicolo) di una scrittrice siciliana, Maria Messina, che parlava di donne che non avevano diritto di parola e non potevano decidere nulla. Mi colpì e decisero di pubblicarlo. Quando chiesi timidamente a Hubert Nyssen di poterlo tradurre, mi rispose: “Se ti piace, fallo!” Tradurre mi appassionò così tanto che non volevo assolutamente smettere: mi piaceva restituire la voce degli altri. Il libro fu un successo: le nipoti della scrittrice mi scrissero e mi mandarono delle foto e delle lettere di Maria Messina. Quella non fu una traduzione ordinaria, ma una vera e propria avventura.
Poi fu la volta di altri libri italiani, provenienti da Napoli, da Trieste: volevo proporre voci diverse e alla fine mi affidarono la direzione della collana di letteratura italiana.
Nel frattempo, avevo cominciato a lavorare per altre case editrici, ma quando trovavo un libro interessante, lo proponevo prima ad Actes Sud.
Come ha imparato a tradurre?
L’ho imparato sul campo, all’inizio con pochissime indicazioni. Bisogna essere sensibili alla voce dell’autore e renderla nel miglior modo possibile. Si devono soprattutto evitare le stonature, bisogna cercare di non tradire la voce e la musica di un testo. Una volta Giorgio Pressburger, uno scrittore che per me è stato molto importante, mi disse: “Se non senti la voce, non devi tradurre”. E io ho fatto tesoro del suo consiglio.
Cosa pensa della questione della fedeltà? In altre parole, riprendendo la famosa definizione di Jean-René Ladmiral, si sente più “sourcier”, più legata al testo di partenza, o “cibliste”, più attenta alla lingua e alla cultura di arrivo?
Che cosa significa una traduzione fedele? Significa essere fedele solo al senso? Se traducessi una poesia e rimanessi fedele solo al suo significato, tradirei la poesia. Non si devono assolutamente sottovalutare il ritmo, le rime, i suoni. Per me, la querelle tra i “sourcières” e i “ciblistes” è priva di senso. Se infatti si prendesse in considerazione solo il pubblico della lingua d’arrivo, a quale lettore si dovrebbero fare delle concessioni? A un lettore colto? O a uno ignorante? A un lettore giovane? Quando traduco un testo del passato, non posso certo commettere degli anacronismi per adattarlo al gusto contemporaneo. Allo stesso modo, però, rimanere bloccati sul testo originale significherebbe ucciderlo. L’opera deve prendere vita nella lingua d’arrivo.
Bisogna insomma trovare un equilibrio tra i due approcci…
Esattamente! Nel lavoro del traduttore, la parola chiave è proprio equilibrio. Il traduttore è uno che pesa le parole, che fa lavorare le due metà del cervello, che le soppesa come farebbe un artigiano o uno chef. Deve tenere bene a mente che, se in una frase perde una parola, potrà sempre recuperarla in quella successiva e bilanciare il discorso.
In un recente articolo su Maria Messina, Lei racconta: “Non sapevo nulla di lei. Come lettrice di Actes Sud, sono stata profondamente colpita da La casa nel vicolo […]. Non era solo ciò che il testo diceva ad affascinarmi, ma anche ciò che non diceva, i suoi silenzi e la sua musica”.
Come si traduce allora il non detto?
Quello di Maria Messina è proprio un testo fatto di non detti, il contenuto è scabroso, quasi una situazione incestuosa. Il non detto è insomma onnipresente, appare attraverso simboli, e deve assolutamente essere conservato nella traduzione.
Ho dovuto affrontare questo problema anche quando ho ritradotto Amours sans amour (Amori senza amore) di Pirandello. In una delle novelle, l’inizio è ex abrupto, non si sa chi stia parlando e si va direttamente al centro del discorso. In quel caso, eravamo in due a tradurre, io e Anita Concas, il che non era male, perché abbiamo discusso molto sul nostro modo di vedere il personaggio. È stato confrontando i nostri punti di vista, facendo concessioni l’una all’altra, che abbiamo potuto rendere in francese questo aspetto così enigmatico. Inoltre, ritraducendo Pirandello, mi sono resa conto che nelle prime traduzioni certe frasi che esprimevano delle realtà “sconcertanti” erano state eliminate. È stato allora come se restaurassi il testo, come quando si lavora su un portale romanico per riportare alla luce il colore originale.
La traduzione è inevitabilmente legata all’epoca in cui si traduce…
Sì, senza dubbio. Oggi, per esempio, non si possono più usare certe parole, come “negro”. Ricordo invece che Goffredo Parise, ne Gli americani a Vicenza [pubblicato nella raccolta “Cahiers de l’Hôtel de Galliffet” diretta da Paolo Grossi] la usa più volte e parla addirittura di tratti quasi “scimmieschi” per descrivere gli americani. Confesso che mi sentivo a disagio nel tradurre quelle espressioni e ricordo di averne parlato a un’amica scrittrice, Marta Morazzoni. Mi disse che non avevo il diritto di cancellare questo aspetto, perché quel testo era legato all’epoca in cui era stato scritto. Non si può essere politicamente corretti a tutti i costi. Le faccio un secondo esempio: sto traducendo un altro libro di Maria Messina e devo trovare una soluzione per l’espressione “l’insegnante di musica”. Devo utilizzare professeur (professore) o professeure (professoressa)? Se scegliessi la seconda opzione, avrei l’impressione quasi di violentare il testo, di volerlo adeguare alla nostra epoca. Non ho ancora trovato una soluzione convincente…
Nel caso di Pirandello, ci ha raccontato che eravate due traduttori. Anche per Magrelli, per Nel condominio di carne e Addio al calcio. Novanta racconti da un minuto, ha lavorato insieme a un altro traduttore: René Corona. Che cosa pensa della traduzione collaborativa?
Innanzitutto, si deve andare molto d’accordo perché si deve anteporre l’interesse del testo al proprio ego. Se si va d’accordo, è come una specie di matrimonio temporaneo. Per Pirandello, con Anita Concas ci siamo divise le novelle da tradurre e abbiamo poi analizzato e criticato le nostre rispettive scelte, ma sempre in modo costruttivo. Con René Corona, l’esperienza è stata particolarmente interessante perché, vivendo in Italia e avendo una cultura enciclopedica, riusciva a rintracciare in Magrelli le citazioni nascoste, i numerosi riferimenti culturali. D’altra parte, però, a volte aveva la tendenza a introdurre degli italianismi e in generale a rimanere un po’ troppo legato al testo. Eravamo insomma perfettamente complementari. Corona mi ha anche aiutato a tradurre le poesie che Stefano Benni, in Di tutte le ricchezze, colloca in apertura di ogni capitolo. La prima traduzione che avevo mandato a Benni non l’aveva soddisfatto: “Sono intraducibile”, mi aveva detto, “devi lasciare le poesie in italiano”. Naturalmente questo non era possibile, e allora ho chiesto aiuto a René. Mi ha mandato la sua traduzione, che io ho poi rielaborato, inserendo soprattutto un numero maggiore di rime. Alla fine, Benni era entusiasta: “Avete fatto miracoli”, mi disse.
Lei ha appena menzionato l’esperienza con Benni. Qual è in generale il suo rapporto con gli autori viventi che traduce?
Dipende, ogni caso è diverso dall’altro. Con Benni, per esempio, di solito ci incontriamo per vedere insieme le difficoltà principali del testo. Benni ha un buon orecchio e capisce bene il francese, così io gli lancio delle idee e lui mi dà la sua opinione. È una specie di ping pong verbale, e cerebrale.
Nella collana italiana che dirige da Actes Sud, compaiono autori famosi come Stefano Benni o Helena Janeczek, ma anche autori interessanti ma meno conosciuti, come Luigi Guarnieri o Cesare De Marchi. Qual è la sua strategia editoriale?
Purtroppo, in questi ultimi tempi stiamo assistendo a un’evoluzione in una direzione molto più commerciale. La mia strategia editoriale consiste nel capire se il testo sia indispensabile, e per “indispensabile” intendo che deve essere assolutamente pubblicato perché l’autore ha una voce diversa da tutte le altre. Oggi, però, dato che l’aspetto commerciale ha molto più peso e a volte l’argomento di cui tratta il libro diventa più importante dello stile, della scrittura, la mia strategia è un po’ in crisi, e penso che i direttori di collana siano una specie in via di estinzione.
Lei ha insegnato traduzione ad Avignone per cinque anni e organizza regolarmente laboratori di traduzione all’École de Traduction et Interprétation di Bruxelles. Ma la traduzione si può insegnare? E che consiglio darebbe ai giovani traduttori?
Si possono all’inizio dare alcune direttive e insegnare il rigore e l’esercizio del dubbio. Quanto ai consigli, invece, prima di tutto direi ai giovani traduttori di perseverare e cercare libri originali da proporre agli editori, perché è molto raro che sia un editore a contattarli. E poi devono leggere molto e ascoltare tutti i tipi di musica per affinare la loro sensibilità ed esercitare l’orecchio .