La parola al traduttore
14 Settembre 2022

Intervista a Howard Curtis, traduttore letterario dall’italiano, dal francese e dallo spagnolo

Autore: Katherine Gregor, literary translator from Italian and French

Intervista a Howard Curtis, traduttore letterario dall’italiano, dal francese e dallo spagnolo

Howard Curtis ha tradotto più di cento libri, soprattutto di narrativa, dall’italiano, dal francese e dallo spagnolo. Tra gli scrittori italiani, ha tradotto: Luigi Pirandello, Beppe Fenoglio, Leonardo Sciascia, Giorgio Scerbanenco, Gianrico Carofiglio, Pietro Grossi, Filippo Bologna, Gianfranco Calligarich, Fabio Geda, Andrej Longo, Paolo Sorrentino, Matteo Righetto e Marco Malvaldi.

 

A differenza di molti giovani traduttori che hanno alle spalle una formazione accademica, lei è autodidatta. Come è accaduto che abbia scelto di diventare traduttore di testi letterari?

Quasi quarant’anni fa, lavoravo in teatro, come regista. Devo ammettere che non avevo molto successo e a un certo punto ho deciso di abbandonare il teatro. Mi sono allora chiesto cosa avrei potuto fare nel resto della mia vita! Un’idea era quella di insegnare l’inglese a studenti stranieri, cosa che in effetti ho fatto per diversi anni; l’altra era di sfruttare la mia abilità con le lingue – avevo studiato francese all’università – e diventare traduttore. Ho avuto la fortuna di ottenere la mia prima traduzione dal francese in pochi mesi – l’italiano e lo spagnolo sono arrivati molto più tardi.

 

Lei insegna spesso ai giovani traduttori. Come vede il ruolo della formazione in questo campo? Si può fare di più e meglio?

Personalmente, ritengo che la formazione in questo settore debba concentrarsi sulla pratica piuttosto che sulla teoria. Forse è un mio pregiudizio, dato che non ho mai studiato teoria della traduzione. Come dico sempre ai miei studenti, ho imparato a tradurre traducendo, e considero mio dovere trasmettere alcune delle strategie pratiche che ho imparato nel corso degli anni. Allo stesso tempo, credo anche che sia importante mettere in evidenza che essere un traduttore letterario non è un modo facile per guadagnarsi da vivere. Cerco di non smorzare l’entusiasmo di nessuno – credo davvero che chiunque abbia davvero una passione per questo tipo di lavoro debba almeno avere la possibilità di mettersi alla prova – ma i giovani traduttori devono essere consapevoli del fatto che poca letteratura straniera viene tradotta in inglese e che si troveranno perciò di fronte a molti concorrenti per un numero ristretto di offerte di lavoro. Quanto a che cosa si possa fare di più nel campo della formazione, non lo so davvero: ci sono già alcuni corsi universitari di traduzione nel Regno Unito, oltre a seminari e corsi estivi. Ma, come ho già detto, credo sia importante che queste istituzioni non si limitino a sfornare sempre più laureati senza far capire loro che si tratta di un lavoro precario.

 

Come è arrivato all’italiano in particolare? 

È stata una mia decisione quando ero adolescente. Ho iniziato a studiare prima il francese e poi il tedesco a scuola e mi sono reso conto di avere una certa facilità nell’apprendimento linguistico nelle lingue. Perciò quindi ho deciso affrontare lo studio di una terza lingua. Non ricordo perché ho scelto l’italiano – forse avevo visto dei film italiani in televisione! Conservo ancora il libro che mio padre mi comprò all’epoca, intitolato L’italiano in 20 lezioni. Così ho iniziato a studiare da solo, anche se all’epoca non sono andato oltre l’apprendimento delle nozioni di base. In seguito, ho iniziato a leggere molti libri per approfondire la conoscenza dell’italiano letterario. Solo quando mi sono affermato come traduttore di francese, ho deciso di propormi agli editori come traduttore dall’italiano – e dallo spagnolo, che ho imparato un po’ più tardi.

 

Quando traduce autori italiani, incontra delle particolari difficoltà, rispetto al francese o allo spagnolo? 

Non mi piace fare generalizzazioni e non direi che gli autori italiani siano particolarmente difficili da tradurre. Ci sono autori italiani difficili da tradurre e altri più facili, così come ci sono autori francesi e spagnoli più difficili o più facili. Una difficoltà che ho spesso incontrato nel tradurre dall’italiano – e mi addolora doverlo dire – è che i libri italiani spesso non sono molto curati dai loro editori originali. Spesso contengono ripetizioni inutili, incongruenze e, peggio ancora, errori di fatto, a volte piuttosto gravi. Ritengo che sia mio dovere di traduttore correggere questi errori, o almeno farli notare all’editore di lingua inglese, in modo che non vengano riportati in traduzione.

 

Recentemente ha avuto un’opportunità – un vero lusso – che a pochi traduttori è concessa. Ce ne vuol parlare? 

Mi è stata data la possibilità di rivedere una mia vecchia traduzione di sedici anni fa, Una questione privata (A Private Affair) di Beppe Fenoglio. Dato che il libro doveva essere ripubblicato da un altro editore, ho chiesto se potevo dargli un’occhiata nel caso in cui ci fosse qualcosa da cambiare, e mi hanno risposto di sì. In realtà, ho deciso di cambiare molte cose, il che dimostra che non esiste una traduzione definitiva e che si possono sempre scoprire cose nuove in un testo eccellente come quello di Fenoglio. Inoltre, sento di essere un traduttore migliore di quello che ero sedici anni fa, e sebbene ci siano nella versione precedente molte cose di cui sono orgoglioso, la maggior parte delle quali ho mantenuto, penso davvero che la nuova versione sia migliore. Come dice lei, è un po’ un lusso avere la possibilità di migliorare una propria traduzione precedente. 

 

C’è una delle sue traduzioni dall’italiano di cui è particolarmente soddisfatto?

In genere sono piuttosto critico nei confronti del mio lavoro. Quando invio una traduzione ad un editore, se ritengo di averla azzeccata all’80%, sono abbastanza soddisfatto, ma penso sempre che ci sia un margine di miglioramento, come dimostra la mia recente esperienza di revisione del libro di Fenoglio. Ma una cosa di cui sono soddisfatto è di aver contribuito alla riscoperta del romanzo di Gianfranco Calligarich L’ultima Estate in città, che ora è apparso nel Regno Unito e negli Stati Uniti, nella mia traduzione, come Last Summer in the City. È un libro che risale al 1973, è stato dimenticato per decenni, poi è stato ripubblicato in Italia solo negli ultimi anni e ora è stato tradotto, credo, in una dozzina di lingue. L’ho letto per la prima volta circa dieci anni fa e me ne sono innamorato immediatamente. Quando si è presentata la possibilità di una traduzione in inglese, è stata una grande soddisfazione essere stato prescelto come traduttore. È un’opera di cui sono davvero molto orgoglioso! 

 

C’è qualche scrittore italiano che vorrebbe le venisse affidato da tradurre?

Penso subito a un autore che ho scoperto solo un paio di anni fa: Alberto Ongaro, che credo non sia molto conosciuto in Italia e che, a mio parere, ha tratti di grande originalità. Scrive storie d’avventura che si potrebbero definire postmoderne, a metà strada tra Dumas e Borges, spesso con ingredienti fantastici o metafantastici. Per quanto ne so, è un caso davvero singolare nella letteratura italiana contemporanea.

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