Montale, un Leopardi segreto? Un’intervista a Jonathan Galassi
Autore: Dalila Colucci
“Del modo di tradurre […] ne parla più a lungo chi traduce men bene”: così scriveva Giacomo Leopardi nel suo Saggio di traduzione dell’Odissea, apparso su «Lo Spettatore» il 30 giugno 1816. La formula – volta a sottolineare la limitatezza di qualsivoglia discorso teorico di fronte all’alchimia quasi amorosa che comporta ogni riuscito processo di traduzione – potrebbe assumersi a tacito vademecum della straordinaria vicenda intellettuale di Jonathan Galassi. Leggendario presidente, dal 1986, della casa editrice newyorkese Farrar, Straus and Giroux, Galassi ha infatti abbracciato la traduzione poetica come un’appassionata pratica esperienziale, dedicando gli ultimi trent’anni a riconsegnarci in inglese due dei più grandi poeti italiani di sempre: Eugenio Montale, alle cui principali raccolte poetiche ha dedicato i Collected Poems 1920-1954 (FSG, 1998) e quindi il Posthumous Diary (Turtle Point Press, 2001); e Giacomo Leopardi, di cui ha tradotto i Canti, apparsi nel 2010 per Farrar, Straus and Giroux. Un anno dopo, FSG ha pubblicato la prima versione integrale, sempre in inglese, dello Zibaldone, tradotta a più mani. Si tratta di traduzioni coltissime, sviluppate di pari passo ad un’autonoma attività creativa, vissuta intensamente come vocazione esistenziale e risultata in tre raffinati libri di poesia – Morning Run (1988), North Street (2000), Left-Handed (2012) – e in un romanzo umoristico su poeti ed editori, Muse (2015). Invano si cercherebbero, nelle concise ma luminose introduzioni, come pure nelle ricchissime note di commento che accompagnano questo titanico sforzo di traslitterazione, delle indicazioni di metodo; vi si incontrerà piuttosto, come al termine della premessa ai Canti, l’invito a provare, sia pure invano, a riprodurre l’inimitabile: “Lasciamo che il collegio dei traduttori si formi e riformi, tentando ‘invano’ – una delle espressioni preferite di Leopardi – di catturare il suo suono inimitabile. Anche se falliremo, ne usciremo migliori” (p. XXV).
Pure, in coincidenza della pubblicazione per Everyman’s Library Pocket Poets Series, di una selezione di poesie montaliane basata sulle sue precedenti traduzioni (Montale: Poems, aprile 2020), qualche domanda ho provato a fargliela, in un freddo ma terso pomeriggio di febbraio, nel suo studio al ventiquattresimo piano di un elegante grattacielo al numero 120 di Broadway, nuova sede della Farrar, Straus and Giroux.
Lei è forse l’intellettuale che più di tutti, negli ultimi decenni, ha sostenuto e diffuso la letteratura italiana negli Stati Uniti. Come presidente della Farrar, Straus and Giroux, ha infatti promosso la traduzione e la pubblicazione di grandi autori del passato e del presente, quali Alberto Moravia, Melania Mazzucco, Valerio Magrelli, Patrizia Cavalli, Roberto Saviano, Edoardo Albinati; per non dire poi dei suoi straordinari contributi come traduttore di Montale e Leopardi. Come nasce questa passione per la cultura e la letteratura italiana e come il suo specifico interesse traduttorio per un genere di nicchia quale la poesia – e in particolare la poesia italiana?
J.G. – Mio nonno era italiano: arrivò in America quando aveva tredici anni, nel 1900. Mio padre aveva studiato italiano all’università ed io sono cresciuto in una casa piena di libri sull’Italia, in una famiglia che ha sempre sottolineato la grandezza dell’arte e della cultura italiana. Dopo la laurea ad Harvard, ottenni una borsa di studio per Cambridge, nel Regno Unito, e in occasione della pausa primaverile di quell’anno, andai a Roma. Non ero mai stato in Europa prima e rimasi sopraffatto da ciò che mi circondava, dalla sua incredibile bellezza; decisi quindi di tornare quell’estate, questa volta all’Università per stranieri di Perugia, dove iniziai a studiare italiano. Tornato a Cambridge, presi a seguire corsi su Dante e altri argomenti italiani. Rientrai in America due anni dopo, a Boston. Sapevo di non voler continuare una carriera accademica, ma scrivevo poesie e la poesia mi interessava molto fin da quando ero studente. In quel periodo, un amico, Frank Bidart – un poeta poi vincitore del Premio Pulitzer, che insegnava già allora al Wellesley College – mi chiese di tradurre gli Xenia di Montale per un numero che stava preparando per una rivista di Boston chiamata Ploughshares. Questo è stato il mio primo progetto di traduzione: in effetti è stata la mia iniziazione alla traduzione della poesia e a Montale. A quell’epoca, avevo iniziato a lavorare nell’editoria presso la Houghton Mifflin, una storica casa editrice bostoniana. Il convergere del mio interesse per la poesia con la mia passione per l’italiano e il mio lavoro di editore mi permise così di continuare a lavorare sulla traduzione. Cominciai dai saggi di Montale. In un certo senso, ho imparato davvero l’italiano attraverso quella traduzione. Poi nel 1981, Montale vinse il Premio Nobel e l’anno seguente Ecco Press pubblicò il mio volume di saggi montaliani (The Second Life of Art). Nel frattempo, dal 1981, ero passato alla Random House, dove ho pubblicato, tra gli altri, l’ultimo libro di Elsa Morante, Aracoeli, nel 1984; nello stesso anno, apparve la mia traduzione dell’ultimo libro di Montale, Altri versi (Otherwise: Last and First Poems of Eugenio Montale, Random House). Poi, nel 1986, sono arrivato alla Farrar, Straus e Giroux, che vantava una lunga consuetudine nel campo delle traduzioni, in particolare dall’italiano. Tra i suoi titoli, vi erano opere di Carlo Levi, Moravia, Ungaretti, Quasimodo. Così, decisi che avrei lavorato sulla grande poesia di Montale. Mi ci sono voluti tredici anni per completare quel progetto: i Collected Poems 1920-1954 sono apparsi nel 1998. È stato il più grande impegno della mia vita e ho speso molti anni sia sulle traduzioni che sulle note, studiando la maggior parte della critica su Montale.
Quando ha intrapreso questo progetto, quale prodotto finale aveva in mente? In altre parole, che tipo di traduzione desiderava realizzare?
J.G. – Si dice che la difficoltà di Montale risieda nella grande varietà di registri e stili che utilizza, determinando un’oscurità del suo messaggio poetico. Pure, tutto ciò che Montale dice ha una ragione precisa: non è mai oscurità fine a se stessa. Ciò che desideravo ottenere con la mia traduzione, ovviamente con l’aiuto delle note, era proprio chiarire cosa Montale intendesse dire esattamente, ossia dissipare il velo della cosiddetta oscurità della sua poesia. Quello doveva essere il mio compito: provare a tradurre chiaramente, ma anche a spiegare, con l’aiuto del commento.
È verissimo: la poesia di Montale ha bisogno di essere decifrata. In tal senso, ho trovato particolarmente riuscite le sue traduzioni dei Mottetti, che rappresentano la poesia di Montale più alta e criptica, per avvicinarsi alla quale il lettore ha bisogno di un commento che tocchi tutti i livelli ermeneutici, dalle note lessicali e biografiche, sino all’indicazione semantica e formale. Che tipo di relazione ha con il Montale dei Mottetti e come è stato possibile tradurne tutto il complicato fondale per i lettori americani?
J.G. – La poesia dei Mottetti è di proposito difficile, è un trobar clus: Montale adotta la tradizione stilnovistica per parlare di un amore illecito, ma vi è anche un sottotesto politico. Non sono pertanto sicuro che intendesse essere sempre compreso appieno. Montale, dopo tutto, è il poeta di pochi, quindi questi sono messaggi segreti in un certo senso, e il segreto fa parte dell’attrazione. Certo, oggi questo non è più del tutto vero. Dante Isella ha realizzato un’edizione molto approfondita dei Mottetti, che io stesso ho adoperato per preparare la mia traduzione, anche se il mio lavoro ha finito per essere diverso. Tradurre (e spiegare) i Mottetti per il pubblico americano può essere infatti più complicato, ma anche più semplice, perché questa poesia presenta diversi livelli di difficoltà per un italiano che non esistono per un lettore americano. Prendiamo ad esempio la quarta poesia dei Mottetti (Lontano, ero con te quando tuo padre), che è una delle più oscure e dove nomi di luoghi come Cumerlotti e Anghébeni dovrebbero, per un lettore italiano, fungere da immediato e significativo riferimento alla brutalità della Prima Guerra Mondiale. Per un americano, invece, questi sono solo toponimi e partecipano piuttosto a quella “mistica dei nomi” che in Montale agisce con una sorta di effetto proustiano. In ogni caso, alcune cose devono sempre essere sacrificate, in una traduzione, e questo può aiutare a facilitare la comprensione di un livello, diciamo il livello primario, del significato originale.
Nella bellissima premessa alla sua traduzione del 1982 dei saggi di Montale, The Second Life of Art, lei ha scritto: “la cultura italiana moderna, per ovvie ragioni storiche ed economiche, ha avuto una più limitata circolazione all’estero di altri brand di civiltà europei e, per quanto Montale abbia giocato un ruolo importante nel portare la letteratura italiana moderna nel panorama internazionale, la tradizione cui attinge la sua scrittura è familiare a pochi non italiani” (p. XII). Alla luce di questa affermazione, cosa può dirci del ruolo della letteratura italiana oggi, negli Stati Uniti? E in che modo la poesia di Montale è divenuta nota nel mondo anglosassone?
J.G. – C’è una fascinazione per la cultura italiana nel mondo anglosassone, per lo meno ad un certo livello. Chiunque possieda un qualche tipo di istruzione desidera andare in Italia. Tutti sanno che Dante è uno dei più grandi poeti della tradizione occidentale, anche se magari non lo hanno letto di prima mano. Per quanto riguarda Montale, ho spiegato come la sua poesia si sia diffusa nel mondo inglese in un saggio che ho scritto per la «New York Review of Books» nel novembre del 2012 – intitolato The Great Montale in English [Il grande Montale in inglese] – che era una recensione della traduzione di William Arrowsmith dei Collected Poems of Eugenio Montale, 1925-1977 (pubblicati da Norton quello stesso anno). In quel testo, parlavo del fatto che Montale ha un’ampia circolazione tra i poeti di lingua inglese, specialmente quelli di una generazione fa. Ha vinto il premio Nobel e prima di allora Robert Lowell aveva già tradotto molte delle sue poesie. Ci sono più poesie di Montale nelle Imitazioni di Lowell, che sono il suo particolare tipo di traduzione, rispetto a qualsiasi altro poeta, e penso che questo sia ciò che per prima cosa lo ha reso noto. Di conseguenza, infatti, molti poeti americani si sono interessati a Montale e lo hanno tradotto; e vari gruppi lo apprezzano per ragioni diverse: i poeti oggettivisti amano Montale per il suo uso dell’immagine; altri poeti, come Lowell, che proviene da una tradizione differente, ammirano la sua formazione classica, la sua elaborata eloquenza. Pure, ancora una volta, le radici di Montale affondano in una tradizione italiana che non è mai veramente accessibile ai non italiani. Certo, Montale inizia come un neo-impressionista, come poeta neo-francese, da giovane; poi si reca a Trieste e lì subisce l’influenza prosaica di autori come Svevo e la sua amicizia con persone quali Bobi Bazlen amplia la sua visione. Ma le sue influenze successive e più profonde sono italiane: dopo tutto, Le occasioni è in realtà un libro su Dante, sugli Stilnovisti. C’è sempre una donna che non si trova in Montale, e questa è una cosa che egli condivide con Leopardi: questa nozione, questa situazione, è al centro della tradizione lirica italiana, che inizia con Dante e Petrarca e arriva fino a Montale. Poi c’è ovviamente il suo successivo periodo di poesia “metafisica”, molto influenzato dal Rinascimento inglese; ma la sua amicizia con Contini, che stava preparando l’edizione delle Rime di Dante negli anni Trenta, fu d’importanza decisiva per Montale. Quel rapporto finì per ri-radicarlo nella tradizione italiana e nel trobar clus, di cui ha approfittato data la segretezza di cui aveva bisogno per motivi sia politici che personali.
Lei ha definito Montale “il più grande poeta italiano dopo Leopardi”, nell’introduzione a The Second Life of Art (p. XII); e Leopardi “il primo poeta italiano moderno”, nella premessa ai Canti (p. XIII). Pure, assai più che la poesia di Montale, quella di Leopardi sembra tradizionalmente ‘riservata’ a un pubblico italiano: l’interesse per Leopardi si è infatti manifestato piuttosto tardi nel mondo anglosassone e le traduzioni dei Canti precedenti alla Sua versione del 2010 erano scarse, parziali e poco diffuse. Da cosa dipende tutto ciò e soprattutto cosa l’ha portata a scommettere su Leopardi?
J.G. – Per quanto riguarda le traduzioni di Leopardi, c’era sicuramente quella di John Heath-Stubbs (Poems from Giacomo Leopardi, 1946); ma non credo fosse completa, come ha detto. Il motivo di una più limitata diffusione della poesia di Leopardi è probabilmente da ricercare nel fatto che, nel corso del XIX secolo, Leopardi è considerato, in Italia come all’estero, un eroe del Risorgimento, per ragioni chiaramente politiche: un eroe della liberazione civile, della creazione di uno stato italiano, modellato sull’antica Roma, opposto ai vecchi regimi monarchici e papali. Leopardi viene cioè visto come parte della liberalizzazione della cultura europea, e non tanto come poeta del dolore personale, che è invece l’aspetto oggi per noi più rilevante della sua produzione. Esistono ovviamente diversi Leopardi: c’è il poeta civile, pubblico, dedito alla retorica e all’esortazione, e c’è il poeta privato, disadattato e infelice. E oggi, penso, Leopardi è riconosciuto come padre del Romanticismo, come il poeta proto-moderno, perché ha creato una soggettività lirica sofferente. Chi altri l’aveva fatto davvero, prima di lui? Nessuno. Se Leopardi fosse stato solo un poeta civile, allora sarebbe rimasto un personaggio storico. Il vero problema del Leopardi poeta per i moderni è che una parte di lui è profondamente retrograda: in alcuni momenti, appare ancora uno scrittore del XVIII secolo, quindi parte della sua retorica è molto difficile da tradurre, perché fondata su un modo di esprimersi ormai in disuso. Ma il poeta degli idilli e quello che combina i due aspetti (civile e privato) di cui ho detto, come in La ginestra…ecco, questo è davvero l’essenza della poesia oggi, e tutto ciò discende da lui. Che cos’è Pasolini, ad esempio, se non un Leopardi moderno?
È dunque per questo che ha deciso di intraprendere la traduzione di Leopardi: per rintracciare l’origine della poesia dell’io?
J.G. – No, in realtà la mia è stata una motivazione, per così dire, ‘ignorante’. Dopo aver completato il mio libro su Montale, desideravo fare qualcosa di nuovo ma non riuscivo a trovare un poeta del XX secolo che amassi tanto quanto Montale. Così ho deciso di guardare indietro; Leopardi aveva scritto solo quarantuno poesie e mi è sembrato ideale lavorare su questo progetto limitato. In effetti, il mio amico Tim Parks, grande traduttore e romanziere, mi aveva chiesto di lavorare su una versione di A Silvia da pubblicare insieme a un articolo che stava scrivendo, e questa è stata l’occasione per iniziare. E poi, naturalmente, quando era ormai troppo tardi, ho scoperto quanto incredibilmente ardua sia la poesia di Leopardi. È stato un progetto molto difficile per me. Più breve, ma in un certo senso più complesso, e direi che sono meno soddisfatto del mio risultato con Leopardi di quanto lo sia con Montale.
È stato senz’altro un gran cambiamento: Montale e Leopardi occupano, direi, gli estremi opposti di un medesimo spettro, per ragioni stilistiche e lessicali. Montale è un poeta il cui stile muta significativamente dagli Ossi di seppia ai Diari, ma sempre si mantiene sulla linea di una grande varietà e precisione realistico-linguistica, mentre Leopardi è campione di vaghezza e indeterminazione. Non solo: laddove per Montale conta soprattutto l’architettura poetica, il suo ritmo, il suo artificio, la chiave della poesia leopardiana giace in quella che Lei ha definito una “espressività sonora impenetrabilmente perfetta” (Canti, p. XXII). Come si sono riflesse queste essenziali differenze nella Sua pratica di traduzione dei due poeti?
J.G. – Questa è una domanda molto interessante e difficile al tempo stesso. Come ho già detto, in qualche modo sono più soddisfatto della mia traduzione di Montale, perché una volta carpito il suo tono – quello di una delusione alienata, ironica, propria dell’atteggiamento di un ‘credente che non crede’ – si è raggiunta la chiave della sua poesia. Il tono di Montale è costante, è sempre lo stesso; e così è il suo tema fondamentale: il dilemma dell’uomo moderno, intrappolato tra passato e futuro, tra fede e incredulità, dove l’ironia è essenziale e pervade ogni cosa. È straordinariamente coerente: se si riesce a penetrarlo, è fatta. Può assumere varie forme e manifestazioni, ovviamente, in diversi periodi del suo lavoro, ma il nucleo resta invariato – ora, ad esempio, sto lavorando alle poesie montaliane più tarde, il cui stile appare a un tempo molto distintivo eppure fondamentalmente lo stesso. Con Leopardi, invece, avevo altri obiettivi. Forse l’intenzione di base era la stessa: ancora una volta, renderne chiaro il messaggio. Ma All’Italia è un animale così diverso da Alla luna… ci sono così tanti stili (alcuni non sono nemmeno molto riusciti, come in Consalvo). Leopardi sperimenta sempre. Se c’è una costante nella sua poesia, essa sta nel suono ed è estremamente difficile tradurne la melodia in inglese senza comprometterne il senso.
Scendiamo ora nel dettaglio dei testi, anzi di un testo particolare: L’Infinito, forse la poesia più intraducibile di tutta la storia della letteratura italiana. Lei ne ha offerto una bellissima traduzione dove tuttavia, come accennava prima, certi aspetti del significato originale sono sacrificati per preservare la bellezza del ritmo. Mi ha colpito, in particolare, la sua resa di “io nel pensier mi fingo”, al v. 7, che nella versione inglese diventa “I can see / beyond, in my mind’s eye”, franto tra i vv. 4 e 5. Al di là della forse necessaria anticipazione del verbo principale (come richiede la sintassi inglese), perché ha scelto di ricorrere al verbo see (vedere)? Perché, insomma, enfatizzare il ‘vedere con la mente’ rispetto al ‘fingere nell’immaginazione’?
J.G. – L’Infinito è la prima traduzione che io abbia mai fatto in italiano. Leopardi lo scrisse a ventun anni e io ne avevo ventidue quando l’ho tradotto. E quando l’ho pubblicato in seguito, ho cambiato solo una o due parole. Stavo cercando, già allora, di fare poesia; sa, per me fare il traduttore significa sempre provare a fare poesia. E, sebbene sia così difficile da traslitterare, ci sono più traduzioni in inglese de L’Infinito di qualsiasi altra poesia italiana! Per quanto riguarda “in my mind’s eye”, si tratta di un’espressione idiomatica inglese che mi è piaciuta perché conserva il ritmo dell’originale; e per me non è il see (vedere) che è il problema, ma l’I can see (posso vedere), che mi sembra un’azione statica, al contrario di quanto suggerito da fingo, che è un verbo attivo, che implica non solo simulazione e/o immaginazione, ma creazione (essendo radicato nel latino fingere = creare). Fingo equivale a “faccio qualcosa”, “produco qualcosa”. Ma ha anche a che fare con l’idea di fiction: è un verbo incredibilmente polisemico. Ma come trasmettere tutto ciò, preservando il ritmo? Occorre sacrificare qualcosa. In un certo senso, è quasi più facile tradurre il latino che l’italiano, perché anche il latino ha molte fonti, ma non è così polisemico.
Ogni poesia, dopo tutto, implica un problema di linguaggio: “il linguaggio di un poeta” – per dirla col Montale delle Intenzioni, un’intervista immaginaria del 1946 – “è un linguaggio storicizzato, un rapporto. Vale in quanto si oppone o si differenzia da altri linguaggi”. Il problema, a mio avviso, è che l’italiano letterario è estremamente storicizzato, culturalmente e geograficamente frammentato, oltre che radicato in tradizioni talora anche arcaiche (specie in poesia), indipendentemente dall’evoluzione della lingua parlata. Leopardi adopera un linguaggio che non è più utilizzato nel suo stesso tempo, e così pure fa Montale…
J.G. – Sì, ma lo fanno in modi diversi. Montale, lo fa ironicamente. Contini ha detto che la lingua di Montale è all’estremo della saturazione culturale: vale a dire, il contenuto culturale nelle sue poesie è troppo per essere risolto nel solo linguaggio parlato, per cui c’è sempre una consapevolezza critica di ciò che viene detto. E penso che parte della differenza con Leopardi stia nel fatto che il bagaglio culturale di quest’ultimo è molto diverso da quello di Montale: prima di tutto, è assai più classico e attinge anche da poeti del XVIII secolo che non leggiamo più. È un registro diverso, con intenzioni diverse. In Montale, ogni cosa trasuda di riferimenti, di significato. Non è possibile salvare tutto, nell’atto della traduzione, ma c’è una densità cognitiva in Montale, e quella sì, si può tradurre: non si riesce, cioè, a restituire i dettagli di una stratificazione così complessa, ma si può dare un’idea della complessità. Questo è la traduzione: raccogliere tale sedimentazione e precipitarla nella propria lingua e realtà culturali.
In questo senso, cosa possono dare Montale e Leopardi – e la loro complessa relazione con la realtà – al lettore americano oggi?
J.G. – Penso che Leopardi comunichi ad ogni lettore in qualunque lingua l’angoscia di essere un io, di essere un individuo che soffre, di fronte al disvelamento di un sogno. Penso che questa sia la sua vera modernità ed è qualcosa di trasmissibile a tutti: si può dover rinunciare a molti registri espressivi, ma è assolutamente traducibile. E penso che Leopardi sia il primo vero romantico. Montale è un pensatore alienato, un amante insicuro, spesso diviso tra due donne, due situazioni (Clizia e Mosca, Dio e non Dio). Non è né antico né moderno, non è né chierico rosso né nero: è qualcosa di diverso, ma prende parte a tutte queste cose e ne fa testimonianza, è consapevole di tutto ciò che non è possibile (quel che non siamo, quel che non vogliamo) e l’ironia situazionale che ne risulta è la sua vera essenza. Porta tutto con sé. Molti dicono che Montale è un Leopardi segreto. Non parla molto di Leopardi, ma si può dire che le loro situazioni di base siano in definitiva molto simili. Penso anche che Montale sia rimasto per così dire ‘sommerso’ negli ultimi quarant’anni, almeno fuori dall’Italia; negli ultimi cinque anni hanno cominciato ad affiorare nuovi studi, ma durante il periodo decostruzionista e anche dopo la sua morte, Montale è stato dimenticato. Sta iniziando a tornare di moda ora, ma è passato davvero tanto tempo. Forse è perché è troppo grande: essere poeti, dopo Montale, è stato un compito molto difficile.
Lei è un poeta post-Montale e il Suo primo libro di poesia è apparso più o meno in contemporanea con le sue prime traduzioni di Montale. Che tipo di influenza ha esercitato il poeta ligure sulla Sua poesia?
J.G. – Ho scritto alcune poesie ispirate alle imitazioni montaliane di poesie inglesi. North Street, ne contiene un buon esempio: The Necklace (La collana). Come suggerito dal titolo della sezione in cui è inclusa la poesia, i “grani smaltati” (“lacquer seeds”) della collana – segni di un’essenza sfuggente (“elusive essence”), piccoli mondi (“little worlds”) di fatiche e sentimenti – sono dei Rayogrammi (Rayograms): astrazioni fotografiche create una volta sola attraverso l’interposizione di un oggetto tra la luce e la carta fotografica. Sono simboli unici di un contatto emotivo, ossidazioni di una “vita ammaccata” (“dented life”), che richiamano l’uso del correlativo oggettivo da parte di Eliot e quindi di Montale.
Al di là di Eliot, quali altri poeti inglesi o stranieri hanno influenzato maggiormente la poesia di Montale, secondo Lei?
J.G. – I sonetti di Montale in La bufera sono molto influenzati da John Donne e da Shakespeare; e Montale tradusse Shakespeare, probabilmente con l’aiuto di Lucia Rodocanachi. Il suo inglese non era molto buono, dopotutto; a leggere le sue lettere a Clizia, se ne troverebbe conferma. Pertanto, deve aver necessariamente fatto affidamento su traduzioni o traduttori. Credo che questo sarebbe un argomento molto interessante da esplorare: a voler leggere John Donne, ai tempi di Montale, a quale traduttore ci si poteva rivolgere? Leone Traverso era un magnifico traduttore dal tedesco, per esempio, e Montale poteva sicuramente contare su di lui, ma per l’inglese dovevano esserci altre persone. In ogni caso, Montale è sempre influenzato da altri poeti: che si tratti di Rilke, Donne, Hölderlin, degli Stilnovisti, o degli occasionali ‘sonetti’ di Robert Lowell, che certamente hanno influenzato i Diari, egli sta sempre ‘rubando’ da altri. Come diceva Eliot, è ciò che fanno i grandi poeti. C’è un enorme dibattito sull’appropriazione, in questo periodo, nella cultura americana, ma è così stupido. La cultura è appropriazione. Ossi di seppia è un libro tutto incentrato su D’Annunzio… appropriarsi, rispondere, è ciò che fanno i poeti e Montale lo ha fatto meglio di quasi tutti.
Come ci ricorda Montale la poesia vive sempre in una speciale connessione con la prosa: “Naturalmente il grande semenzaio d’ogni trovata poetica è nel campo della prosa. Una volta tutto era esprimibile in versi, e questi versi sembravano, e talvolta erano, poesia. Oggi si dicono in versi solo determinate cose”. (Intenzioni). Alla luce di tale contaminazione, che tipo di relazione esiste tra poesia e prosa nell’atto della traduzione? Penso, nello specifico, al legame della poesia di Montale e Leopardi con raccolte in prosa come Il secondo mestiere e lo Zibaldone.
J.G. – Montale ha scritto moltissimo come giornalista ed è un meraviglioso scrittore di prosa. Ma non è come Leopardi: non è un filosofo, scrive d’arte, non d’idee. E prima di tutto è un conservatore culturale. Leopardi, invece, ha un piede nel passato e un piede nel futuro. Più si legge su entrambi, in ogni caso, più si imparerà sui loro mondi, da dove vengono e di cosa stanno parlando. Ciò riprende quanto ho detto all’inizio: la cosa che volevo davvero fare come traduttore era trasmettere quel che Leopardi e Montale stavano effettivamente dicendo, e questo è un obiettivo prosaico, in un certo senso. In una traduzione poetica, del resto, servono entrambe le cose. E questo ho cercato di fare nella mia traduzione di Montale: ho cercato di renderlo chiaro, ma senza perderne il ritmo intrinseco. La migliore recensione del mio libro su Montale è stata quella di un poeta canadese, Eric Ormsby, che ha scritto che ero riuscito a creare degli equivalenti ritmici per le poesie di Montale. Ecco cosa deve fare la traduzione: dare un senso e mantenere la compulsione interna del ritmo, anche se le rime vi vengono sacrificate. È interessante notare come gli Italiani considerino la poesia di Montale aspra, o comunque poco liquida, mentre per noi che parliamo inglese è così musicale! Montale forse ha una musica più difficile, ma noi non lo sentiamo in modo altrettanto distinto perché al nostro orecchio suona piuttosto fluida. La poesia di Leopardi è persino più fluida di quella di Montale; ma, allo stesso tempo, c’è molta prosaicità in lui in quanto Leopardi è creativo con la forma: per esempio, abbandona le rime e incrina sottilmente le strutture interne ed esterne della tradizione poetica con cui è cresciuto. È molto radicale come scrittore e anche questo è prosaico! Leopardi e Montale sono in definitiva due facce della stessa medaglia ed è per questo che a volte penso a Montale come ad un Leopardi segreto.
Vuol parlarci della nuova edizione Everyman di poesie montaliane basata sulle sue traduzioni? In che modo si accosta o si differenzia dalle precedenti?
J.G. – Praticamente è tratta dai Collected Poems: ne fa una selezione, senza il testo originale italiano a fronte, ma conservando le note. Quindi è una riduzione, una distillazione. Attualmente sto lavorando ad un secondo volume su Montale, da Satura in poi; ho già una bozza, ma devo completare le annotazioni.
Infine, una domanda di natura quasi esistenziale: quale crede che sia oggi il valore umano e sociale della poesia? Quale il suo futuro editoriale?
J.G. – Il valore della poesia oggi è lo stesso di sempre: distillare le preoccupazioni, la storia, le aspirazioni, i problemi di una cultura. La poesia cattura la nostra essenza in modo più efficiente e memorabile di qualsiasi altra arte. Questo è il motivo per cui viene spesso citata a rappresentare un momento particolare, una prospettiva – “what oft was thought but ne’er so well expressed” (“ciò che è spesso pensato, ma mai bene espresso”), per dirla con Pope. Questo succede che lo si voglia oppure no. La poesia passa e torna di moda. In questo momento c’è un’enorme quantità di attività poetiche negli Stati Uniti. Probabilmente la maggior parte non è destinata all’immortalità, ma qualcosa lo è certamente. Quando si considera un poeta come Terrance Hayes, per menzionare solo un grande contemporaneo, e il modo in cui riesce a dare un senso al nostro mondo confuso e terribile, allora si comprende che la poesia sta ancora facendo il suo lavoro. Montale lo aveva capito e lo esprime brillantemente nei suoi scritti in prosa. La poesia è la più mobile e clandestina delle arti. Prospera nelle difficoltà. Il suo futuro editoriale è quello che è. Ma io non me ne preoccupo. Sono preoccupato per il nostro mondo, per noi. Ma una cosa di cui non sono preoccupato è la poesia.