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4 Maggio 2022

Il libro italiano in Serbia

Autore:
Snezana Milinkovic, Università di Belgrado

La traduzione è contagiosa, ed è al contempo sediziosa. Contagiosa perché il traduttore individua un accattivante “virus” in un determinato contesto linguistico e culturale e si fa subito in quattro per trasmetterlo ad altri; sediziosa perché coloro che predicano la (sacra) inviolabilità dell’ambiente al quale appartengono sono obbligati a stare sempre all’erta per fronteggiare temutissime contaminazioni. In realtà un popolo/nazione può dirsi vitale nella misura in cui è vitale la cultura di cui è portatore, ossia nella misura in cui è capace di (s)cambiare, rispondendo a sollecitazioni che provengono dall’esterno. Come si spiegherebbe, diversamente, il parallelo e mutualistico procedere dell’insieme delle famiglie europee attraverso le incalzanti fasi dell’illuminismo, e poi del romanticismo, fino ai giorni nostri.

La tesi secondo la quale la traduzione va intesa non soltanto alla stregua di un veicolo, ma come l’attività fondatrice per eccellenza della cultura, è stata avanzata anche nel corso del convegno organizzato nel 2017 dall’Istituto Italiano di Cultura di Belgrado, dedicato alle “Culture in traduzione: un paradigma per l’Europa”. In tale occasione si è pure sottolineato come, guardando nello specifico al complesso delle relazioni tra Italia e Serbia, le mosse si debbano prendere dal tardo illuminismo, ovverosia da un’epoca già intrisa, su entrambi i versanti, da pulsioni nazional-identitarie. Era accaduto allora che, nel quadro di un sistema di valori oramai largamente uniformato, un gruppo di intellettuali serbi si avvicinasse agli insegnamenti provenienti dalla sponda opposta dell’Adriatico. L’accesso ai Lumi era insomma nei Balcani avvenuto attraverso il filtro italico. I nomi da citare tra quanti possono essere considerati gli iniziatori della cultura e della letteratura serba, sono quelli di D. Obradović, il progenitore dell’Università di Belgrado, che si era rifatto all’Etica di F. Soave, di J. Vujić, che aveva tradotto il crociano Bertoldo, Bertoldino e il “cugino” Cacasenno, di E. Janković, che si era segnalato per l’adattamento di C. Goldoni, di J. Pačić, che per il suo canzoniere si era ispirato ai modelli petrarcheschi utilizzati dai poeti ragusei. 

Lungi dall’arrestarsi, la spinta innovatrice ha di lì a poco conosciuto una decisa accelerazione, venuta a suggellare quella che è stata definita l’epoca dei “Due Risorgimenti”, per riprendere il titolo di un importante lavoro di N. Stipčević (l’edificatore dell’italianistica belgradese), uscito negli anni Settanta. Si spiegano così i reiterati richiami alla figura di Dante, il “padre della nazione italiana”. È persino impressionante, considerati i tempi e le circostanze, il numero di coloro che si sono dedicati, con esiti talora pregevoli, tal altra non propriamente felici, alla traduzione – integrale o, più spesso, parziale – della Commedia. Quel che è certo è che tracce evidenti, sia pure velate, dell’opera dantesca sono rimaste impresse nel tessuto della produzione letteraria locale.

Il fenomeno della proliferazione di traduzioni dantesche, protrattosi fino alla metà del Novecento, ha avuto il merito di fare da apripista all’interesse per altri autori. Risale infatti agli anni Ottanta del XIX secolo la prima traduzione del Decameron di G. Boccaccio, da attribuire, quasi certamente, ai fratelli Jovanović (cimentatisi anche con i melodrammi di Metastasio). E subito dopo compare pure una versione dell’ariostesco Orlando furioso per mano di D. Stanojević.

Il percorso intrapreso assume connotazioni ben più pregnanti allorché, quasi ad annunciare l’esperienza del “Pijemont” (rivista dai contenuti culturali, ma con dei lapalissiani richiami all’imprimatur della politica), all’attenzione per i “classici” viene ad affiancarsi quella per i contemporanei. A questo punto, sollecitato, forse, dagli intensi rapporti con Mazzini, S. Jovanović, illustre storico e finissimo teorico, s’era già adoperato per rendere accessibile un ampio segmento del Principi di Machiavelli, ma a risultare particolarmente suggestive sono ora soprattutto le “parole in libertà” dei futuristi, il teatro/metateatro di Pirandello, le veristiche novelle di G. Verga; con quest’ultime pronte a guadagnare un interprete/traduttore di altissimo valore, S. Matavulj. 

La compresenza di vecchio e di nuovo sortisce ben presto effetti nient’affatto trascurabili. Un caso emblematico è quello del premio Nobel I. Andrić; il quale, nel ritiro belgradese impostogli dalla guerra, si era messo a scorrere e a rendere in serbo i Ricordi di F. Guicciardini, la sua Storia d’Italia, le relazioni degli ambasciatori veneziani: tutti ingredienti che, sapientemente amalgamati, sono confluiti sia nel Ponte sulla Drina che nelle riflessioni degli Znakovi pored puta (la traduzione dei Ricordi sarebbe apparsa post mortem, grazie ad un’edizione critica curata da N. Stipčević).

Le tensioni dovute al conflitto, se per un breve frangente sono riuscite a prendere il sopravvento, non sembrano comunque aver provocato danni irreparabili o scalfito irrimediabilmente la solidità di un legame, cementato nei decenni, che mostrava di saper superare anche le prove più scabrose. A dispetto del peso, pur non trascurabile, esercitato dal clima di contrapposizione ideologica in cui era piombato l’intero continente, l’intreccio delle aperture tra le due penisole affacciate sull’Adriatico ha velocemente guadagnato spazi vistosi. Sarebbe difficile parlarne evitando di ricordare gli sforzi profusi, in tal senso, dai maggiori centri universitari e dai rispettivi istituti di lingua e letteratura italiana: quello di Zagabria, da un lato, e quello di Belgrado, dall’altro, impegnatisi entrambi a incoraggiare e a favorire lodevoli iniziative editoriali, come ad esempio quella della fiumana “Battana”, chiamata a diventare, con il concorso di Roma, un luogo privilegiato di incontro tra scrittori italiani e jugoslavi. E tuttavia si deve osservare come, per il moltiplicarsi dei contatti e delle relazioni, sia stata in primis determinante la leva modernizzatrice della dirompente attitudine al largo consumo, che ha contribuito a ridisegnare la fisionomia della società nel suo insieme. Alla rivisitazione dei “classici”, con delle più mature versioni della Commedia e del Decameron (per tacere dell’autentico entusiasmo che ha circondato il Petrarca), e alla consueta attenzione per gli scrittori del momento (si pensi a Moravia), si è venuta così a sommare la dilagante onda d’urto di un fenomeno in precedenza assente: quello della “letteratura circostante” (come l’ha definita L. Simonetti), senza blasoni, senza grandi pretese, però anch’esso certificante una prossimità culturale. Le attestazioni più clamorose sono legate al mondo del fumetto: la diffusione degli albi bonelliani (da Zagor a Tex), e i consensi ottenuti dal duo Max Bunker – Magnus (Alan Ford, magistralmente interpretato da N. Briksi), sono persino straripanti, con tirature che raggiungono livelli forse irripetibili. 

Il panorama delle traduzioni dall’italiano non ha subito delle sostanziali ritinteggiature in seguito alla dissoluzione della federazione jugoslava. Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da una generosa disponibilità di titoli, che se ha saputo porre rimedio a delle colpevoli lacune (quali erano, ad esempio, le pirandelliane Novelle per un anno), ha per di più contribuito ad arricchire le biblioteche “di settore” (dalla storia alla filosofia, alle discipline sociologiche). Ma è importante sottolineare come, accanto ad autori di sicura affidabilità (da U. Eco a C. Magris), sia diventato pressoché assiduo e imprescindibile l’intervento di enti e istituzioni, quali sono il Ministero degli Esteri o l’IIC, in sostegno della meritevole attività di emergenti e combattive case editrici, il cui obiettivo è quello di rendere reperibile anche la voce di poeti e prosatori meno noti al grande pubblico. 

È proprio con l’intento di fornire un prezioso strumento di orientamento, in un quadro generale che è oramai pervenuto ad un elevato grado di complessità e di articolazione, che sono stati consegnati alle stampe i tre volumi di Čitanje Italije (Leggere l’Italia), dedicati alla narrativa, alla saggistica e alla poesia. Frutto di una collaborazione tra l’IIC (diretto, all’epoca, da D. Scalmani), il Dipartimento di Italianistica e la casa editrice Arhipelag, la pubblicazione può essere paragonata a una sorta di catalogo bibliografico, da intendere come un punto di arrivo. Ma suscettibile di diventare un punto di partenza.

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