Echi di Trieste nell’editoria francese (seconda parte)
Autore: Laurent Feneyrou (CNRS)
Nel complesso periodo post-bellico, due romanzieri vengono tradotti in francese, spesso sulla scia immediata delle loro pubblicazioni in lingua originale: Pier Antonio Quarantotti Gambini, già nel 1949, con L’onda dell’incrociatore (Les Régates de San Francisco), prima di diversi altri romanzi e raccolte di versi o di prosa che André Pieyre de Mandiargues ha occasionalmente prefato (La calda vita nel 1964, La Vie ardente, o Al sole e al vento nel 1982, Soleil et Vent); e Renzo Rosso (L’adescamento nel 1963, Un été lointain, che lascia aperte le fratture della sua città, e La dura spina nel 1965, L’Écharde; i racconti di Gli uomini chiari seguiranno nel 1989, Les Hommes clairs).
Parallelamente, nel 1962, appare la prima traduzione di ventuno poesie di un maestro della letteratura, Umberto Saba. Grazie a René de Ceccatty, Franc Ducros, Georges Haldas, Odette Kaan, Gérard Macé, Bernard Simeone e Frank Venaille in particolare, seguirono diversi altri volumi: oltre a una selezione di lettere (Moi et les autres, 1989), il romanzo Ernesto (1978, nuova versione nel 2010), che racconta gli abusi e le tappe dell’iniziazione sessuale dell’adolescente Saba, varie raccolte di storie, racconti e aforismi (Comme un vieillard qui rêve, 1983, Couleur du temps, 1985, Ombres des jours, 1990, Femmes de Trieste, 1997), nonché altre antologie, che danno forma definitiva alla traduzione, a più voci, del Canzoniere (1988). Lì, il canto dell’introversione, segnato dalla nevrosi e dagli anni di psicoanalisi, raggiunge una grazia, una trasparenza, una limpidezza di cose leggere e vaganti, una saggezza che sembra un dono amaro, pazientemente conquistato, intriso di malinconia e di idillio, fino ad assurgere a una dimensione universale. L’accettazione della vita tutta, dolce e crudele, non è priva di rischi, perché attraversata da desideri oscuri, da angosce insopportabili, dalla paura e dal richiamo della morte. “Il Canzoniere è la storia (non avremmo nulla in contrario a dire il ‘romanzo’, e ad aggiungere, se si vuole, ‘psicologico’), di una vita, povera (relativamente) di avvenimenti esterni; ricca, a volte, fino allo spasimo, di moti e di risonanze interne, e delle persone che il poeta amò nel corso di quella lunga vita, e delle quali fece le sue ‘figure’”, come scrive Saba.
Dagli anni Ottanta, la conoscenza della letteratura triestina in Francia si è approfondita. Alcuni titoli: Il giorno del giudizio (Le Jour du jugement, 1981), La veranda (La Véranda, 1989), De Profundis (De Profundis, 2012) di Salvatore Satta, di origini sarde, ma figura eminente dell’Università di Trieste, e la raccolta di scritti giuridici e politici L’Avertissement de Socrate (2019), tradotto il primo da Nino Frank, il secondo da Christophe Carraud; Il fantasma di Trieste (Le Fantôme de Trieste, 1986) di Enzo Bettiza, romanzo di una città divisa, sull’orlo del caos nazionalista e guerrafondaio; l’odisseico Capitano di lungo corso (Capitaine au long cours, 1987), le Lettere editoriali (Lettres éditoriales, 1999), note di lettura severe e acute, e il ricordo di Trieste di Roberto Bazlen (Trieste, 2000); La miglior vita (La Vie meilleure, 1987), un secolo di storia in un villaggio istriano, e L’ereditiera veneziana (L’Héritière vénitienne, 1991) di Fulvio Tomizza, proposto da Claude Perrus; La frontiera (La Frontière, 1990) e Processo a Volosca (Procès à Volosca, 1991) di Franco Vegliani, struggenti meditazioni sulla scelta, la legge e la violenza; Il richiamo di Alma (Les Métamorphoses d’Alma (1992) e Il re ne comanda una (La plus belle du royaume, 1994) di Stelio Mattioni, grottesca, inquietante e implacabile decostruzione di un ordine rigido e chiuso; la concisa e dolorosamente disillusa Nostra signora morte (Notre Maîtresse la mort, 1992) di Giorgio Voghera, nella versione di Carole Walter, cui seguiranno presto altre opere; Il segreto (Le Secret, 1996) dell’Anonimo triestino, radiografia di un amore adolescenziale inconfessato, dove i sentimenti vengono analizzati piuttosto che vissuti, tanto da vanificare così l’esistenza stessa; il racconto, in forma di diario, dell’esilio da Fiume (oggi Rijeka) in Verde acqua (Vert d’eau, 2001) e nella favola, grave e delicata, La radura (La Clairière, 2004) di Marisa Madieri; la Passeggiata armata (Confession téméraire, 2019) e il Diario 1944-1945 (Journal 1944-1945, 2021) di Anita Pittoni, che si distinse nella letteratura come nelle arti decorative, e le cui Edizioni dello Zibaldone pubblicarono, già nel 1949, edizioni accuratissime dei maggiori scrittori triestini.
A conclusione di questa lista, ci soffermiano su cinque ultimi autori.
È ancora troppo presto per misurare, in Francia, il considerevole contributo di Giani Stuparich alla letteratura triestina e, più in generale, alla letteratura italiana. Certo, sono stati tradotti il suo romanzo Ritorneranno (Ils reviendront, 1988), affresco della prima guerra mondiale in cui trovò la morte suo fratello Carlo, tra le truppe al fronte e la città in attesa; lo sconvolgente racconto L’isola (L’Île, 1989), in cui un padre malato e suo figlio approdano a Lusinpiccolo, al largo dell’Istria (1990); Donne nella vita di Stefano Premuda (Femmes dans la vie de Stefano Premuda, 1990), che raccoglie testi apparsi sulla prestigiosa rivista “Solaria”; Trieste nei miei ricordi (Trieste dans mes souvenirs, 1999), itinerario nella letteratura triestina, attraverso i caffè che ne hanno ospitato i protagonisti, i periodici e le amicizie sullo sfondo delle tormentate vicissitudini della storia; e La guerra del ’15 (L’année 15. Journal de guerre, 2019), la testimonianza umile e sobria di un volontario arruolatosi come soldato semplice fra le truppe italiane. Il suo disincanto, il suo rigore morale e politico, in cui si coniugano ideali nazionali e istanze umanistiche e democratiche, le sue poesie, pubblicate da Anita Pittoni nelle edizioni Lo Zibaldone, i suoi racconti, di cui Quarantotti Gambini ha proposto una corposa antologia nel 1961 (Il ritorno del padre) offrono materia a ulteriori iniziative editoriali.
Sempre negli anni Novanta appaiono le traduzioni delle opere del filosofo Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica (La Persuasion et la Rhétorique, 1989), l’Epistolario (Épistolaire, 1990), le Appendici critiche a La persuasione e la retorica (Appendices critiques à La Persuasion et la Rhétorique, 1994) e il Dialogo della salute e altri dialoghi (Dialogue de la santé et autres textes, 2004). Autore postumo, Michelstaedter, non solo perché non pubblicò nulla in vita e morì suicida a ventitré anni, appena completate le Appendici critiche, ma anche a causa della sua tardiva ricezione, avvenuta solo negli anni Settanta, sull’onda della riscoperta delle culture mitteleuropee di inizio secolo. In una Gorizia, di cui era originario l’eminente glottologo Graziadio Isaia Ascoli, luogo di incontro di filosofi e germanisti, tra i quali Enrico Mreule ed Ervino Pocar, e la cui comunità ebraica fu quasi interamente sterminata durante la Seconda guerra mondiale, compresa Emma Luzzatto, madre di Michelstaedter, e una delle sue sorelle, quest’opera radicale, protesa verso l’assoluto, assetata della luce più intensa, viene pensata in greco, la lingua madre della cultura occidentale. Lettore di Platone e Aristotele, Michaelstaedter non considera l’antichità in base al suo tempo, ma misura la nostra modernità con il metro della saggezza antica.
Due antologie, Dans le silence le plus tendu (1983) e Les Litanies de la Madone et autres poèmes spirituels (2020), la prima tradotta da Laïla Taha-Hussein, la seconda da noi, danno voce al canto potente e sensuale del poeta gradese Biagio Marin, la cui opera, che forma, come un’isola, un sol blocco, vibra in dialetto di motivi mirabilmente colorati, attraverso la somma sempre uguale delle sue parole, poche centinaia al massimo, certamente meno di mille, e attraverso la sua forma metrica, la quartina, presa a modello dalle sue fonti popolari. Anche Pier Paolo Pasolini ha visto in Marin un uomo “bloccato”, il cui genere è la litania, specchio dei secoli e degli anni immutabili come le ore: il “non tempo” del mare, del cielo o delle sabbie della laguna, sub specie aeternitatis, come se questo mondo e quello dell’aldilà fossero una cosa sola.
Nel 2015, vengono pubblicati Appunti inutili (Notes inutiles) di Virgilio Giotti, pagine di diario che hanno per oggetto il lutto per la morte dei due figli, dispersi durante la campagna di Russia. Giotti è il poeta degli umili, dei vinti, dell’etica della povertà, della semplice bellezza del mondo, della sua caducità e vanità, della fuga inesorabile delle ore, della solitudine inerente all’esistenza, dei dolori universali dell’uomo, di una disperazione dagli accenti stoici e di una riserva improntata da vividi e rabbiosi attacchi di malinconia. Per questo povero alegro, ciò che conta è la tenerezza per i propri cari e la sua estrema manifestazione: la compassione. Così Giotti canta, con pudore, la casa, le ombre che la abitano, i fiori e gli oggetti, armoniosi e sobri, che mantengono una parvenza di ordine, il desiderio perduto di stare vicino ai suoi cari, le follie e le tragedie della vita domestica.
Infine, l’autore che oggi incarna la letteratura triestina è Claudio Magris, il cui primo titolo è apparso in francese nel 1987, Illazioni su una sciabola (Enquête sur un sabre), prima che Jean e Marie-Noëlle Pastureau traducessero la maggior parte delle sue opere successive, narrative e saggistiche. Sia che segua i meandri di un fiume e, attraverso di esso, dipinga una Mitteleuropa dalle ferite mai rimarginate e così diffidente nei confronti della Storia da abbandonarsi a un senso del possibile, piuttosto che del reale (Danubio, Danube, 1988), sia che studi la letteratura austriaca moderna alla luce dello stato sovranazionale voluto dagli Absburgo, del suo crollo nel 1918 e dei suoi tardivi sussulti (Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, Le Mythe et l’Empire dans la littérature autrichienne moderne, 1991), sia che racconti le peregrinazioni di Enrico Mreule, discepolo di Michelstaedter, dalla Patagonia all’Istria (Un altro mare, Une autre mer, 1993), sia che misuri la crisi nietzschiana della fine del XIX secolo come rivolta della vita contro la cultura, e messa a nudo, non regressiva né irrazionale, delle sue contraddizioni, e ricerca di nuovi modelli (L’anello di Clarisse, L’Anneau de Clarisse, 2003), Magris, attraverso la sua erudizione e la chiarezza del suo linguaggio, punta a una verità: “Svevo, Saba e Slataper non sono tanto scrittori che nascono in essa e da essa, quanto scrittori che la generano e la creano, che le danno un volto, il quale altrimenti, in sé, come tale, forse non esisterebbe”.
Possano future traduzioni far emergere altrettante inaudite voci di Trieste.