La parola al traduttore
7 Giugno 2022

Intervista a Alex Valente, traduttore letterario dall’italiano verso l’inglese

Autore: Katherine Gregor, Literary Translator from Italian into English

Intervista a Alex Valente, traduttore letterario dall’italiano verso l’inglese

Alex Valente, europeo, vive nei territori Musqueam, Squamish and Tseleil-Waututh, noti anche come Vancouver, BC È traduttore letterario dall’italiano all’inglese e viceversa, ma anche talora dal francese e recentemente lavora soprattutto con i giochi di ruolo. È co-redattore del “The Norwich Radical”. Suoi lavori sono stati pubblicati su “NYT Magazine”, “The Massachusetts Review”, “The Short Story Project”, “PEN Transmissions”, EuroLitNet come The Italianist. Contatti: alexvalente.fyi o su Twitter as @DrFumetts.

 

Alex, raccontaci di te e del tuo percorso. Come e perché hai deciso di diventare un traduttore editoriale?

Sono nato in Italia, a Prato, ma mia mamma è dello Yorkshire e a casa parlavamo sia italiano che inglese. Mi dicono che a quattro anni avessi un accento Yorkshire molto marcato, che ho poi perso solo quando mi sono trasferito in Gran Bretagna per i miei studi universitari. Pensavo di laurearmi in letteratura inglese, tornare in Italia e mettermi a insegnare – ma durante l’ultimo anno di studi mi sono trovato quasi per caso nel mondo della poesia in traduzione, ho fatto un master e un dottorato e ho conosciuto persone che lavoravano nel campo della traduzione letteraria! Anche grazie ai loro contatti, ho iniziato i miei primi lavori in traduzione, fino ad ottenere il mio primo contratto per un libro.

Quanto al perché, mi rendo conto solo ora che il passaggio dall’insegnamento alla traduzione è stato molto naturale. 

 

Hai ricevuto una formazione? Secondo te qual è il miglior modo per imparare il mestiere di traduttore?

Ho acquisito molti strumenti e contatti durante i miei studi universitari, e quindi anche questi sono stati opportunità di formazione. Ho poi frequentato laboratori di traduzione, come ce ne sono un po’ ovunque nel mondo. In realtà, se dovessi scegliere cosa consigliare, punterei su seminari e laboratori piuttosto che su un percorso accademico – visti anche i costi e i tipi di sostegno economico messi a disposizione per entrambi i percorsi.

Penso che il miglior tipo di formazione sia un percorso strutturato cui concorra una molteplicità di voci, da cui emergano le modalità di uso effettivo della lingua parlata o scritta, in modo naturale. Poter lavorare regolarmente a contatto stretto con editor e colleghi contribuisce in modo non indifferente a sviluppare le proprie abilità di scrittura e traduzione. Non basta discutere di virgole o di teorie di traduzione. Bisogna sentire respirare la lingua o le lingue.

 

Sei pienamente bilingue. Come mai hai scelto di tradurre verso l’inglese piuttosto che verso l’italiano?

Perché questa opportunità mi è stata offerta per prima! Dopo il mio primo libro ho continuato a lavorare con editor e case editrici britanniche, e contemporaneamente ho tradotto per un paio d’anni poesie dall’italiano all’inglese per una rivista online. La maggior parte dei miei contatti oggi viene da quel mondo e da quel contesto. Recentemente, tuttavia, sto cercando di capire se spostarmi anche verso il mondo editoriale italiano, e penso di aver trovato la strada giusta per diventare ancora più bilingue, dopo i miei primi saggi di traduzioni poetiche, fatte più per piacere personale.

Come dicevo prima, trovare editor, redattori o lettori che aiutino a sviluppare l’orecchio nell’una o nell’altra direzione, è stato per me fondamentale. Si tratta di un aspetto importantissimo per questo tipo di lavoro, anche se non si intende fare il traduttore a tempo pieno.

 

Hai tendenza ad usare una lingua piuttosto che l’altra per esprimere certe emozioni o sentimenti?

Questa è una domanda facile cui rispondere: le parolacce mi vengono più facili in italiano, e penso ciò abbia a che vedere con il linguaggio colorito della Toscana in cui sono cresciuto (non ditelo ai miei). A volte mi sembra più facile invece parlare di emozioni e di alcune tematiche più complesse in inglese, ma molto dipende dal contesto e dall’interlocutore. Ma mi basta una settimana di immersione in una delle due lingue per rimettere tutto in movimento…

 

Da quando hai iniziato a fare traduzioni, hai notato cambiamenti nell’industria della traduzione e in particolare su come sono visti i traduttori?

Il cambiamento più grande, almeno nel mondo anglofono, è il livello di riconoscimento di chi traduce, che sta portando sullo stesso piano testo originale e traduzione. Questo riconoscimento era già una realtà in Italia: basti pensare a nomi come Pivano, Melaouah, Carmignani o Reali, per citarne solo alcuni. L’effetto spesso indesiderato di questa visibilità emergente – ne ha parlato di recente André Naffis-Sahely, ma come lui anche una lunga serie di persone “razzializzate” sia in scrittura sia in traduzione – è che l’autore del testo originale viene messo in secondo piano, anziché piuttosto su un piano di parità. Si tratta di un modello facilmente riconoscibile da chiunque vi presti un minimo d’attenzione.

Un altro cambiamento riguarda l’importanza dei sindacati e l’efficacia del loro operato per la categoria. Faccio parte sia della Translators’ Association (Gran Bretagna) sia di STRADE (Italia), organizzazioni che aiutano ad affrontare questioni contrattuali; mettono a disposizione reti di contatti con persone che hanno percorsi professionali simili e hanno condotto le stesse battaglie; offrono informazioni su sovvenzioni e bandi; si impegnano a far sì che il nostro lavoro sia riconosciuto e tutelato. Spera che col tempo si riesca anche a liberarsi da alcune cattive abitudini legate alle tradizioni e all’inerzia generazionale, promuovendo pratiche di lavoro meno esclusive e più collettive.

 

Qual è il lato più appagante del tuo lavoro – a quello più arduo?

Come buona parte di coloro che fanno questo mestiere, mi sono trovato spesso a che fare con autori che non rispondono, redattori troppo zelanti, editori maleducati: insomma, tutte le gioie di un sistema che appunto chiamiamo industria editoriale. Il riconoscimento del ruolo di chi traduce di solito non comporta una remunerazione adeguata, e anche un anticipo sostanzioso talora può essere associato a un pessimo contratto, per quanto riguarda i diritti. A questo s’aggiunge poi il fatto che i capricci del mercato spesso non consentono a libri anche molto validi di avere successo, perché in quel momento non vengono ritenuti adatti al pubblico– il che non è quasi mai vero…

Le soddisfazioni più autentiche della mia attività, in realtà, non vengono dalla pubblicazione in sé, ma piuttosto dai contatti che si stabiliscono, dalle anticipazioni di ciò che sta accadendo nel mondo editoriale, dal piacere di scoprire le meraviglie che i cervelli di altri traduttori producono nel corso del loro lavoro, dall’aiutare i lettori ad apprezzare non solo i libri che io traduco, ma i buoni libri in genere (anche i buoni libri cattivi…).

 

Quali sono i tre libri che vorresti tradurre più di ogni altro?

Ci sarà sempre un posto speciale nel mio cuore per il libro che sono quasi riuscito a pubblicare quando ho iniziato questo lavoro, ma per il quale non ho mai ottenuto i diritti: Blues in sedici di Stefano Benni. Una sequenza narrativa composta di poesie sulle città, sulla gente che ci vive sugli orrori quotidiani.

Spero poi che esca al più presto il primo libro di narrativa di Espérance Hakuzwimana, e anche se non sarò io a tradurlo, desidero fare tutto quanto è possibile per promuoverlo. Per quanto riguarda invece la traduzione dall’italiano all’inglese, penso di aver già trovato il mio sogno da realizzare, come ho detto prima. Ma ci penserò quando avrò rispolverato il mio italiano abbastanza per iniziare a lavorarci seriamente.

Intervista a Alex Valente, traduttore letterario dall’italiano verso l’inglese
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