Intervista a Richard Dixon, traduttore di letteratura italiana classica e contemporanea.
Autore: Paolo Grossi
Come è diventato traduttore? E perché il suo lavoro di traduttore si è rivolto in particolare all’italiano?
Il mio interesse per la traduzione è nato dopo il mio arrivo in Italia trent’anni fa. Mi contattarono per tradurre un contratto legale. All’epoca la mia conoscenza dell’italiano era ancora quella di un debuttante, ma il linguaggio giuridico era un territorio per me familiare e mi ritrovai presto a far fronte a un flusso costante di lavoro. Dalle agenzie di traduzione mi arrivava ogni tipo di materiale, dalle guide turistiche agli opuscoli di cosmetici, dai cataloghi d’arte ai progetti europei. Questo è stato per me il miglior apprendistato possibile e mi ha dato una solida conoscenza della lingua e della cultura italiana. Gradualmente mi sono orientato verso la traduzione letteraria e ho fatto la mia prima traduzione di un libro nel 2006.
Come giudica la situazione attuale dell’editoria britannica rispetto al libro italiano? È cambiato qualcosa in questi ultimi anni? Si traduce di più? Di meno?
Alcuni editori britannici (non più di una mezza dozzina) stanno pubblicando magnifiche traduzioni di letteratura italiana ma, in base alla mia esperienza, pochi di essi sanno leggere l’italiano. Questo rende per loro più difficile giudicare il lavoro dei nuovi autori e fa ricadere sul traduttore responsabilità ancor più gravose. Credo che in questo momento siano in corso non poche traduzioni. Questo è certamente merito del coraggio degli editori ma anche della qualità delle traduzioni stesse, aiutate anche dai premi alla traduzione che valorizzano i lavori di qualità. Ma gli editori, secondo me, preferiscono andare sul sicuro e puntare su autori attorno ai quali possono costruire una storia e magari vendere i diritti televisivi.
Lei ha tradotto opere di classici come Giacomo Leopardi, ma anche libri di autori contemporanei come, tra gli altri, Carlo Emilio Gadda, Umberto Eco, Roberto Calasso, Antonio Moresco, Marcello Fois, Eugenio De Signoribus, Franco Buffoni etc. Che cosa pensa della letteratura italiana di questi nostri anni?
La letteratura italiana ha goduto di una posizione di rilievo nel dopoguerra grazie a traduttori come William Weaver che hanno aiutato a portare all’attenzione dei lettori di tutto il mondo scrittori come Alberto Moravia, Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Italo Calvino e Umberto Eco. Ci sono stati molti successi strepitosi negli ultimi anni: penso a scrittori come Andrea Camilleri ed Elena Ferrante. Ma ci sono molti giovani autori brillanti che aspettano di essere scoperti. Tra quelli che ho letto recentemente e che meritano di essere meglio conosciuti: Andrea Bajani, Roberto Cotroneo, Giacomo Sartori, Igiaba Scego, Alessio Torino, ma potrei continuare…
Quanto è importante per Lei, nel Suo lavoro di traduttore, il rapporto personale con gli autori dei libri che traduce? Durante il lavoro di traduzione, intrattiene con loro una corrispondenza?
Fa una grande differenza, soprattutto nel mio approccio alla traduzione. Dà più flessibilità perché, nel caso di un autore vivente, c’è la possibilità di fare dei cambiamenti nella traduzione. Umberto Eco diceva che il compito del traduttore è di mettere (nel mio caso) il lettore inglese nella stessa posizione del lettore italiano. Era generalmente contento che io aggiungessi qualche parola di spiegazione a riferimenti che sarebbero stati probabilmente ovvi per un lettore italiano ma non per un lettore inglese, o che li tagliassi del tutto.
In due mie traduzioni recenti gli autori hanno accettato di cambiare i nomi dei personaggi: in un caso perché il nome di un personaggio maschile era più comune come nome femminile in inglese, nell’altro perché diversi nomi inglesi scelti dall’autore non si adattavano, secondo me, al periodo e al luogo in cui il libro era ambientato.
Preferisco contattare l’autore verso la fine, quando la traduzione è quasi completa. Mando una lista di dubbi e indico le mie proposte per risolverli. L’autore è quasi sempre d’accordo.
Tra i tanti libri italiani da Lei tradotti, ce n’è stato uno che ha rappresentato per Lei una sfida particolarmente difficile e stimolante?
Ogni libro presenta proprie, specifiche difficoltà, che non sono sempre evidenti finché non si inizia a lavorarci. Questo è l’aspetto più stimolante del mio lavoro – due lavori non sono mai uguali – ma può anche essere talora motivo di scoraggiamento, come se si dovesse ricominciare tutto da capo. Le sfide variano a seconda dell’autore. Per esempio, tradurre Umberto Eco ha richiesto molte ricerche ma la sua voce era inconfondibile, e ho avuto poche difficoltà a renderla in inglese. Roberto Calasso mi mandava le fonti di ogni suo libro, ma il difficile era aprirsi un varco nella sua sintassi. Con Paolo Volponi il problema stava nella peculiarità delle sue immagini poetiche che non sono facili da tradurre. Ma la sfida più grande, credo, è stata La cognizione del dolore di Gadda. Il suo stile barocco sembra a volte sfidare la traduzione: i termini difficili e oscuri e i neologismi che usa paiono impossibili da rendere in inglese. Fortunatamente, sono stato aiutato dalla magnifica edizione critica di Emilio Manzotti (Einaudi, Gli Struzzi, 1987), ma ricordo di essere stato contattato da una lettrice colta che mi mostrò una lista di 194 parole che non aveva capito e mi chiese come fossi riuscito a preservare l’incomprensibilità del testo originale. Dovetti ammettere che non l’avevo fatto: le parole della mia traduzione non erano così oscure come quelle usate nell’originale. Quindi la mia traduzione è una semplificazione, mi suggerì, e io mi sentii un po’ smarrito nel risponderle.
Lei ha una lunga esperienza di traduttore, quasi cinquantennale. E ha anche scritto articoli e saggi sul tema della traduzione. Quali consigli darebbe ai giovani che volessero lanciarsi in questa carriera?
La qualità di una traduzione dipende da due fattori principali. In primo luogo, occorre avere una approfondita conoscenza della lingua da cui si traduce. Se si vive nel Paese in cui si parla questa lingua, tanto meglio, ma in un modo o nell’altro cisi deve immergere nella sua cultura. Una laurea aiuta, ma non è sufficiente. In secondo luogo, e altrettanto importante, bisogna saper scrivere bene nella propria lingua. Non è necessario essere uno scrittore o un poeta professionista, ma occorre dominare la propria lingua, e più esperienza di scrittura si ha al di fuori della traduzione, meglio è. Queste due qualità, insieme, aiutano a produrre una traduzione fedele ma leggibile. C’è però un’ulteriore fase, che comporta l’ascolto del suono e del ritmo del testo originale: sentire la voce dell’autore e riprodurla nella propria lingua. Un buon traduttore ha un buon orecchio e sa come trasformare quel suono. È l’abilità di un alchimista, che si impara con l’esperienza.
Di quali autori italiani si sta attualmente occupando come traduttore
Ho appena finite un terzo libro di Stefano Massini, sto lavorando a un secondo romanzo di Paolo Volponi e spero di tradurre presto un nuovo Antonio Moresco.