La parola al traduttore
4 Maggio 2023

Intervista a Jean-Pierre Pisetta, scrittore e traduttore

Autore: Luigi Visconti

Intervista a Jean-Pierre Pisetta, scrittore e traduttore

Jean-Pierre Pisetta è nato nel 1956 in Belgio da genitori emigrati dal Trentino. Dopo gli studi secondari, ha lavorato per quattro anni come manovale. In seguito, ha studiato traduzione all’università nella sezione russo-italiano-francese. Nel 1984 inizia a lavorare come insegnante, professione che svolgerà fino al pensionamento nel 2021. Prima traduzione in volume (dal russo) nel 1986 (Leone Tolstoi, Fiabe e racconti), prima traduzione dall’italiano nel 1990 (Gianni Vattimo, La società trasparente), prima raccolta di racconti personali nel 1997 (Morts subites).

 

Come ha iniziato questa professione? Quali sono state le tappe più importanti della sua carriera professionale?

Quando lavoravo come manovale (1976-1980), mi sono interessato molto alla letteratura e, in particolare, alla letteratura russo-sovietica. Ricordo ancora l’emozione di leggere Il primo cerchio di Solženicyn, un romanzo corale in cui tutti i personaggi, anche lo spazzino della prigione, hanno la loro storia. È questo dono, questa offerta – permettere a coloro che non conoscono una lingua di scoprire e apprezzare una letteratura straniera – che mi ha spinto a lavorare come traduttore.

Il passo più importante nella mia carriera di traduttore è stato nel 1993. Dopo vari litigi su questioni di compensi finanziari con lo stesso editore per due contratti consecutivi, gli ho inviato le quaranta pagine tradotte del secondo libro che stavo traducendo per lui, nello stesso momento in cui ho definitivamente rinunciato a tradurre su commissione. Da allora, tutto ciò che ho pubblicato è il risultato di una scelta personale dei testi da tradurre, che sottopongo agli editori una volta completata la traduzione. Questa ‘indipendenza’, tuttavia, ha avuto una conseguenza sfortunata: un gran numero di traduzioni stravaganti sono rimaste nei miei cassetti.

 

Come si colloca rispetto alla questione della fedeltà? È più un “sourcier” o un “cibliste”, per usare la definizione di Jean-René Ladmiral?

Ho sviluppato un concetto diverso da quello di Ladmiral: la “letteralità letteraria”.

Attribuisco un’importanza primaria alle parole che un autore utilizza, e secondariamente all’ordine di queste parole. In altre parole, inizio sempre, a volte solo nella mia testa, a volte direttamente nella scrittura, con una fase di “letteralità”, cioè il massimo rispetto per la lettera dell’originale. Subito dopo, o molto tempo dopo, cioè durante la fase di rilettura della traduzione, passo all’operazione di ‘letterarizzazione’, che è essenziale e inevitabile quanto l’operazione di ‘letteralizzazione’. Ecco perché il mio approccio al testo da tradurre è sempre duplice: prima letterale e poi letterario. E letterale non significa parola per parola: “Piove”, parola per parola, è “Piove”; letteralmente, è “Piove” e, alla fine, anche letterariamente.

Per usare le parole che lei suggerisce, ma che, per quanto mi riguarda, non uso mai perché le trovo troppo ‘esclusive’, sono sempre sia un “sourcier” sia un “cibliste”, e sempre un “sourcier” prima di essere un “cibliste”.

 

Quanto è importante il rapporto personale con gli autori che traduce nel suo lavoro di traduttore? Mantiene una corrispondenza durante il processo di traduzione?

Se l’autore è ancora vivo, lo contatto sempre non appena inizio a tradurre. Ad esempio, sono rimasto in contatto con Paolo Barbaro, di cui ho tradotto Storie dei Ronchi, con Laura Mancinelli per il suo Amadé, con Erri De Luca all’inizio della sua carriera, nel 1995, per la traduzione di uno dei suoi racconti, La città non rispose, che era apparso in una raccolta collettiva e che poi avrebbe incluso in una raccolta personale, In alto a sinistra. Sì, credo che sia molto importante. Ma ho tradotto anche molti autori scomparsi, recentemente Libero Bigiaretti, Edmondo De Amicis, Francesco Jovine… e mi è sempre mancato questo contatto.

 

Lei sta lavorando ad una nuova traduzione della Divina Commedia di Dante. Può dirci qualcosa di più su questo progetto?

Mentre la parola “dantesco”, che comunemente significa “infernale”, è molto usata in francese, chi legge la Commedia oggi nei paesi francofoni? E, soprattutto, quanti giovani lettori, o addirittura lettori esperti, hanno letto l’Inferno? Eppure, questo testo, ricco di episodi ‘fantastici’ – in tutti i sensi – merita di essere conosciuto meglio. Ahimè, le traduzioni versificate sono noiose e inaccessibili al lettore comune, anche al lettore esperto.

Ho quindi pensato, per avvicinare Dante a un vasto pubblico di lettori francofoni, di tradurlo in prosa, il più fedelmente possibile, ma senza note, aggiungendo titoli di capitoli o piuttosto canti che chiarissero i passaggi troppo nebulosi del testo.

In una conferenza tenuta nel 1966, intitolata ‘Per il centenario di Dante’ (il 600° anniversario della sua nascita), il poeta greco Georges Seferis notò l’estrema precisione lessicale di Dante e si rammaricò del fatto che le traduzioni versificate la sacrificassero a vantaggio del metro. Chiedeva quindi una traduzione in prosa che rispettasse questa precisione e avvicinasse il più possibile il lettore straniero alla lettera del testo.

Ho letto il testo di Seferis molto tempo dopo aver intrapreso il mio lavoro su Dante, ma il suo punto di vista mi ha ovviamente confortato. All’inizio della mia traduzione, ho inserito una citazione dalla prefazione di Joseph Bédier alla sua traduzione in prosa de La chanson de Roland: “Questo libro non è solo per gli studiosi; tutte le persone che sanno leggere e scrivere debbono poter avvicinare il venerabile poema e goderne.” Non avrei saputo dirlo meglio.

Ma ho offerto il ‘mio’ Inferno agli editori per dieci anni, senza successo. Avevo continuato la mia traduzione in prosa con il Purgatorio, ma alla fine, vista la mancanza di interesse per il mio approccio, ho gettato la spugna al Canto XVII.

 

Qual è l’aspetto più appagante del suo lavoro? E quale quello più ingrato?

L’esercizio della scrittura, dello stile, ma con il vincolo di rispettare l’originale, è un’operazione estremamente formativa e arricchente, anche per la mia attività di scrittore.

Ma, dal momento che lavoro come anticonformista, traducendo testi che poi propongo agli editori, la cosa più difficile è bussare a porte che spesso non si aprono. Va detto che le mie scelte non sono ‘commerciali’ e sono forse troppo specificamente ‘personali’.

 

A quali libri sta lavorando attualmente? Quale autore le piacerebbe tradurre un giorno?

Ho appena finito di tradurre Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro, un racconto lungo (metà libro) omonimo seguito da altri dodici racconti, che è già in lettura presso diversi editori. Nel 2021 ho pubblicato La malattia di Libero Bigiaretti, un autore i cui libri non sono più disponibili nelle librerie italiane, e ho messo gli occhi sul suo magnifico romanzo I figli.

Avendo pubblicato, con due miei ex studenti, due racconti di Antonio Baldini (un altro autore che è scomparso dalle librerie in Italia), sarei lieto di tradurre uno dei suoi racconti umoristici intitolato Michelaccio.

Di Francesco Jovine, di cui ho pubblicato qualche mese fa la traduzione di Viaggio nel Molise, vorrei tradurre il suo notevole Ladro di galline, in particolare il racconto omonimo di questa raccolta.

Un giorno spero di terminare la traduzione di Ricordi di scuola di Giovanni Mosca, una raccolta di ricordi dei giorni di scuola risalenti agli anni Trenta. Sono a metà strada.

Ma i miei cassetti sono così pieni di manoscritti rifiutati che non riuscirei neanche a infilarvi una semplice poesia. Quindi mi dedicherò per un po’ allo studio del pianoforte e alla pittura ad olio, due attività che svolgo da molto tempo e che sono ‘autosufficienti’.

 

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