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13 Ottobre 2023

Intervista a Matteo Codignola, direttore di Orville Press

Autore:
Laura Pugno

Nella sua rubrica di interviste, newitalianbooks ha deciso di dare spazio alle nuove realtà editoriali del panorama italiano. In questa puntata è con noi Matteo Codignola che, dopo molti anni presso la casa editrice Adelphi come editor, traduttore e art director, ha dato vita al marchio Orville Press. A lui quindi rivolgiamo la domanda, “Come possiamo raccontare il progetto editoriale di Orville Press e la sua identità alle lettrici e ai lettori all’estero di newitalianbooks?”

 

Matteo Codignola
Chi ha la brillante idea di aprire una casa editrice, o un marchio editoriale, nel 2023, poi deve anche essere pronto a sentirsi chiedere se per caso è diventato matto, o lo era già prima. Nel mio caso lo ero già prima, quindi in un certo senso sono autorizzato a eludere la domanda. Faccio libri da più tempo di quanto sono disposto ad ammettere, anche se non mi ero mai trovato a dover cercare un posto dove farli – ce l’avevo. Però è successo, e per qualche settimana non ho saputo bene che direzione prendere. L’editoria ha costi alti e ricavi bassi, e io non avevo né un patrimonio da dilapidare né un amico abbastanza incosciente da affidarmi il suo – e lo credo. Quindi, la situazione non era semplice, e probabilmente si sarebbe complicata anche di più se all’improvviso non fosse arrivato un assai improbabile cavaliere bianco. Conosco Stefano Mauri da molto tempo, e ci è spesso capitato di fare quattro chiacchiere sui rispettivi mestieri. E così, quando ha sentito cosa avevo in testa di mettere in piedi – cioè una piccola casa editrice che pubblicasse una decina di titoli l’anno, di qualità dal decente in su, principalmente orientata al contemporaneo – Stefano mi ha subito proposto di farla con loro. Francamente, non me l’aspettavo. Loro erano – sono – GeMS, il secondo gruppo editoriale italiano, il che significa una quantità di cose – l’ultima delle quali credevo fosse la voglia di aggiungere una sigla, e di quel taglio, alle non poche che già lo compongono. Inoltre, io avevo alle spalle tre decenni, anche più, di editoria indipendente, e per cambiare pelle mi sembrava un po’ tardi. Ma in realtà la prospettiva di aprire un piccolo marchio che si comportasse come un soggetto autonomo all’interno di una macchina editoriale che ha i connotati di un’industria era un esperimento attraente da vari punti di vista – come verificare sul campo la distanza piuttosto esilarante fra il significato che Stefano attribuisce alla parola margini e quello che gli attribuisco io. Insomma, senza neppure pensarci troppo, siamo partiti.
La prima difficoltà, come sempre, è stata trovare un nome. Veramente per quel che mi riguardava ne esisteva già uno, e dal primo momento: Orwell. L’avevo scelto per devozione all’autore, naturalmente, ma anche per due ragioni meno solipsistiche. La prima erano i tipi di libri che Orwell ha scritto, testi molti diversi fra loro, ma sempre capaci di trovare una straordinaria risonanza col mondo che li aveva generati – a meno che, come nel caso di Animal Farm e 1984, quel mondo non lo avessero generato loro. Ma poi c’era una ragione più nascosta. Con l’eccezione dei romanzi propriamente intesi, Orwell aveva sempre scritto testi senza un genere o uno scaffale di appartenenza, e questo lo aveva costretto a trovare, quasi a ogni libro, la forma più congeniale. Ecco, forse questa è una delle consapevolezze che nel tempo chi fa editoria ha perduto, e dovrebbe recuperare – l’importanza della forma, intendo. E anche da lì, pensavo, si sarebbe dovuti ripartire.
A pochi giorni dal lancio, come accade, abbiamo scoperto che quel nome non si poteva usare. Oggi è un marchio registrato, che per di più non viene dato in licenza. Per un attimo mi sono chiesto cosa ne avrebbe pensato l’interessato, notoriamente suscettibile, ma l’attimo dopo ho dovuto concentrarmi su un problema più urgente – come diavolo chiamare la casa editrice che avrebbe dovuto nascere a giorni. In questi casi uno pesca tra le proprie fissazioni, e per un numero preoccupantemente alto di ore il nome ha rischiato di essere quello di alcuni tennisti che non hanno vinto niente di importanti, o di uno dei molti tre alberi tristemente stritolati dai ghiacci. Ma per fortuna non tutte la manie vengono per nuocere, e a forza di guardare una cartolina primo Novecento che mi porto dietro fin dai tempi di un remoto viaggio in Ungheria ho cominciato a pensare che quell’immagine poteva essere un buon logo – per non so bene quale casa editrice. Era un disegno al tratto che riproduceva il primo trabiccolo su cui i fratelli Wright si staccarono da terra, un mattino di dicembre del 1903, per una dozzina di secondi. Be’, dei fratelli – quello ai comandi nel disegno, e anche nella realtà, era Orville. Il quale, prima di provare a volare, aveva fatto altre cose che mi piacevano parecchio. Biciclette, ad esempio. E anche un giornale, comprando da un tipografo che stava chiudendo un paio di Monotype. Orville aveva pubblicato persino qualche libro, prima di passare ad altro. Ma non si era lasciato tutto quanto alle spalle. Il trabiccolo di cui sopra lo aveva chiamato, col pragmatismo per cui andava piuttosto noto, Flyer. Cioè, una cosa che vola. Ma, in tipografia, anche un volantino.
Forse i pezzi stavano andando al loro posto. O ce li potevo mettere.

 

Fino al giugno 2023 Orville ha pubblicato tre titoli. Sono pochi, ma penso diano un’idea, se vogliamo attenerci all’immagine, della rotta che intendo tenere. Il primo, Box Hill, di Adam Mars-Jones, è semplicemente una storia d’amore fra due uomini, spogliata delle fesserie di cui spesso si ritiene storie del genere debbano rivestirsi, per poter essere raccontate. In realtà, è un racconto spogliato quasi di tutto, tranne dei fatti, non tutti e non solo piacevoli, che lo compongono. È come uno di quei piccoli film indie girati con tre lire, una troupe di sette persone e un copione di venticinque pagine, e uno dei motivi per cui l’ho sempre amata è proprio il rapporto fra la quantità di cose dette e lo spazio, minuscolo, in cui Adam è riuscito a dirle. Per uno degli scherzi che spesso i cataloghi editoriali fanno, e da cui derivano il loro interesse, Box Hill è adiacente a un libro che non potrebbe essere più diverso. La tempesta è qui, il superbo reportage in cui Luke Mogelson racconta molto da vicino l’anno che ha preceduto l’assalto al Campidoglio – e l’assalto stesso, visto molto da vicino – è piuttosto un kolossal. Con un cast ricchissimo – per una metà fatto di star, per l’altra di gente presa dalla strada –, location sparse per metà degli Stati Uniti, e scene, nel bene e nel male, ad alto tasso spettacolare. Ma è soprattutto una prova di dove possa arrivare la scrittura documentaria, e cioè a prendere fatti, personaggi, idee sul mondo che tutti quanti credevamo di conoscere e a trasformarle (anche) nel romanzo sull’America di questi anni che fin qui nessuno ha scritto. Poi c’è Le forze della terra, di Jo Ann Beard, che forse è il libro più singolare dei tre. Non vorrei dirne molto, solo che al centro ha uno dei grandi racconti degli ultimi decenni. Si chiama Il quarto stato della materia, e racconta un episodio di violenza efferata in un modo a tal punto diverso da qualsiasi altro da far sospettare che quello che Jo Ann ci sta descrivendo sia, in realtà, il quarto stato della materia narrativa, cioè il graal che in questi anni tutti cercano, e nessuno o quasi sembra aver trovato.
Mi fermerei qui, credo di aver detto anche troppo. Mi piace fare libri, ripeto, ma molto meno parlarne – parlare toccherebbe a loro. E anche sui libri che verranno preferirei limitarmi a garantire che saranno, appunto, libri – uno status che, nella scena in cui siamo costretti a vivere, suona più o meno come una petizione di principio, se proprio come un grido di battaglia. Ma davvero, basta così. Come diceva l’altro Wright, Wilbur, gli unici animali che parlano sono i pappagalli: e non volano tanto alto, che mi risulti.

Matteo Codignola © Max De Martino

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