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5 Giugno 2023

Intervista a Jaroslaw Mikolajewski, poeta, scrittore e traduttore dall’italiano al polacco

Autore:
Fabio Troisi, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia

Poeta prima di tutto, scrittore, ex direttore dell’Istituto Polski a Roma, attualmente responsabile scientifico al Museo della letteratura di Varsavia. È uno dei principali traduttori dall’italiano al polacco. 

 

La prima domanda, molto banale. Com’è stato il tuo primo incontro con la letteratura italiana? Quando e come è avvenuto ?

È stato nel 1974, avevo quattordici anni. Avevano aperto il primo liceo nella storia polacca in cui l’insegnamento della lingua italiana era alla pari di quello dell’inglese. Avevo appena ascoltato alla radio una bellissima traduzione di Cesare Pavese e me ne ero innamorato. Chiesi di essere ammesso al liceo, e, in seguito, ho letto tutto Pavese. Qualche anno dopo l’Istituto Italiano di Cultura, nella persona di Romolo Cegna, il Direttore di allora, aveva indetto un concorso di lingua e io fui tra i vincitori. Quel premio è stato assolutamente essenziale perché mi ha permesso di andare in Italia per la prima volta. Sapevo già da quel momento che non avrei potuto fare altro. Poi ci furono altri episodi importanti. Per esempio, nel 1980, ero in treno verso Perugia. Trovai per caso un libro di poesie lasciato da qualcuno. Un testo di facile lettura. L’autore era un perugino, di nome Sandro Penna. Arrivato a Perugia andai a cercare la sua casa, i suoi ricordi, per capire la sua storia. Le poesie di Penna furono uno dei primi testi che ho pubblicato. 

Infine, durante le leggi marziali, nell’Ottantuno, avrei dovuto debuttare come poeta, ma decisi di non pubblicare con la casa editrice del regime. Andai sul ponte Poniatowski e gettai tutti i miei scritti nel fiume. Allora mi misi a tradurre forsennatamente, vissi la traduzione delle poesie italiane come un’ancora di salvezza. Capii che per il lavoro di scrittore, non è necessario essere poeti, si può essere anche traduttori. In quel periodo ho sviluppato questa doppia anima.

 

A proposito di questa doppia anima, la tua attività di poeta interferisce oppure contribuisce all’attività di traduttore e viceversa?

Negli anni Ottanta in Polonia studiare letteratura era studiare da traduttori e viceversa, non c’era distinzione. Durante la nostra formazione eravamo specialisti in lingua inglese o spagnola, ed io ero l’unico che si occupava di italiano. Scrivevamo, traducevamo, eravamo scrittori e traduttori. Avevamo la possibilità di individuare la specificità del contributo delle varie letterature. Capii che l’italiano aveva una sua unicità: una certa consonanza, di bellezza, di ritmo, eufonia. La cosa più importante nella lingua italiana è la più particolare: conservare il contesto in cui la poesia nasce. I poeti italiani danno molta attenzione a rispettare il momento in cui la poesia nasce, cosa l’ha provocata, che tipo di osservazione, che tipo di esperienza; questo per me è il più grande contributo della lingua italiana. Io stesso curo moltissimo questo aspetto, cercare di lasciare un’impronta, una memoria della nascita del sentimento della poesia, in base alle esperienze che la generano. 

 

Dante, Petrarca, Michelangelo Leopardi, Montale, Ungaretti, Luzi, Penna, Pavese, Pasolini. Dal punto di vista strettamente editoriale, la poesia in generale e la poesia italiana in particolare, ha un impatto sulla società attuale? 

Probabilmente no, resta di nicchia. Secondo alcuni critici polacchi, nella poesia italiana del Novecento non è accaduto nulla di rilevante. Ovviamente altri, tra cui io stesso, non sono d’accordo, ma questo pregiudizio è rimasto. Io ho iniziato ad auto-pubblicare le mie traduzioni dopo l’avvento della democrazia, perché solo da allora abbiamo potuto collaborare con le istituzioni. Pubblicai diversi volumi di testi che fino ad allora avevo lasciato nel cassetto. In quel periodo collaboravo con il Corriere della Sera, e spendevo tutti i soldi guadagnati per pubblicare. Per la prima volta dal dopoguerra, pubblicammo un volume di poesie di Leopardi in polacco. Le promuovevamo noi stessi, per le strade, eravamo dei pionieri. Adesso è diverso, ma comunque si parla di numeri molto limitati. Ad esempio, recentemente sono stati pubblicati un’antologia di Montale tradotta da tre giovani poeti di Poznan e un volume di poesie di Tonino Guerra. Prima non c’era nessuno, ero solo. Ho scritto una lettera a questi traduttori perché finalmente mi sono sentito esonerato da un obbligo. Comunque, continuo a pubblicare: sto per consegnare un volume di Saba per l’editore Austeria di Cracovia. E poi uscirà Fabrizio De André.

 

E per quanto riguarda la letteratura italiana in generale, qual è secondo te la sua situazione attuale in Polonia?

Il comunismo aveva tanti difetti, ma anche alcuni pregi, in particolare la gestione delle biblioteche pubbliche: ancora oggi vi si può trovare di tutto, non solo titoli di letteratura italiana, ma di tutto il mondo, classificati con grande competenza. Una cosa che nelle librerie di oggi è impensabile. Era ovviamente anche un modo che il regime aveva di addomesticare e isolare ciò che veniva da fuori, renderlo una sorta di mondo irreale. Quando incominciai a studiare la letteratura italiana negli anni Settanta trovavo traduzioni del Gattopardo, di Cassola, di Fenoglio; e quando gli autori arrivavano all’Istituto eravamo obbligati dai professori a partecipare agli incontri. Erano momenti preziosi, in cui scoprivamo dei momenti di libertà altrimenti negati. Dal mio punto di vista l’Italia e la sua letteratura rappresentavano la felicità.

 

Secondo te qual è un libro italiano che manca in Polonia, che non è stato ancora tradotto? 

L’Hypnerotomachia Poliphili. Uno dei libri più surreali e affascinanti non tradotti che io conosca; secondo me potrebbe diventare un libro “di moda”, anche dal punto di vista scientifico potrebbe dare un contributo importante alle nostre discussioni sul postmoderno. Un’altra grande opera di cui manca la traduzione è poi, secondo me, il L’altra verità. Diario di una diversa di Alda Merini.

 

Come accennavamo prima, hai tradotto moltissimi classici. Qual è secondo te il tuo più grande risultato come traduttore?

Sicuramente la Divina Commedia. Sia perché ho dovuto cambiare approccio e metodo di traduzione, sia soprattutto perché per la prima volta si è cercato di rendere leggibile Dante ai polacchi. Questa mia traduzione è sicuramente meno bella delle precedenti, anzi forse è brutta, però sicuramente ora i lettori capiscono il testo.

 

È ancora attuale Dante in Polonia nel 2023?

Assolutamente. È attualissimo. Leggendo “mi ritrovai in una selva oscura” vedo un immigrato smarrito nella foresta di Bialoweza al confine con la Bielorussia. I capolavori hanno questa capacità di rendersi sempre attuali, del resto. Ho anche completato un adattamento teatrale, per cui sto cercando il sostegno di istituzioni teatrali in Italia. Nel canto del bosco dei suicidi, è evidente come venga fuori il tema della sostenibilità, della circolarità uomo-natura. E oggi Ulisse viaggia sui gommoni, e probabilmente cerchiamo di non vederlo. Tanti temi toccano da vicino la sensibilità polacca: la peculiarità della condizione di esule, per esempio, torna in un autore come Mickiewicz nel 1800, un periodo in cui gli esuli polacchi si riunivano in circoli. Oggi la parola di Dante si rivolge alle crudeltà del mondo contemporaneo, ai fili spinati, alle tante Lampedusa che ci rifiutiamo di guardare.

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